Narda Fattori


Il vecchio che non poteva morire

L’alba si affacciò per l’ennesima volta ai suoi vetri della sua camera da letto, ricoperti da una patina di polvere . Ormai anche in pieno luglio, quando i primi raggi si bucano come spini, non riuscivano a penetrare la fitta patina grigiastra che vestiva i vetri e contrastava con l’ordine maniacale della stanza : i pantaloni ben appoggiati alla sedia, sopra di essi la camicia, quindi la giacca e sulla seduta, la cintura , i calzini e sotto le calze. L’armadio era piccolo, forse ancora degli anni cinquanta quando gli abiti erano pochi, quelli strettamente necessari a ricoprirsi nelle due stagioni, quella estiva e quella invernale. Le altre stagioni si trascorrevano con una maglia in più , una in meno.
Il letto era ancora solido, a due piazze, di noce scuro, con un’alta testata ornata da una cornicetta intagliata; troneggiava nella grande stanza con la sua mole e i comodini al suo fianco sembravano due servitori, pronti sempre a soddisfare i suoi desideri.
Su un comodino era appoggiata una bottiglia d’acqua e un bicchiere, uno solo , sull’altro una grande cornice reggeva la foto di una bella signora , florida e bruna, sorridente, con lo sguardo diritto , elegante in un abito accollato, scuro , con un filo di perle che illuminavano il volto e l’abito stesso.
Il vecchio si girò verso la cornice e sospirò.
“ Erano bei tempi quelli: io e te a lavorare e tu eri bella ed io ero sempre contento, la sera insieme, sul tavolo della cucina contavamo l’incasso, ricordi? Questo per le spese e queste per i figli, il futuro, quando saremo vecchi,…così dicevi, ma tu vecchia non sei diventata e i figli non sono venuti . Pazienza, dicevi, dovremo risparmiare perché qualcuno si occupi di noi. Solo io invecchio e sono invecchiati anche i soldi messi via giorno dopo giorno, rinunciando ad una bistecca, ad un paio di calze, ad un panettone, ad un gioiello. Anche la collana che indossi è falsa: pietre coltivate, ma facevano lo stesso una bella figura… Adesso non ho alcuna fretta di alzarmi, con le gambe che mi reggono a malapena e la schiena incurvata per tutti quegli inchini ai clienti, quel sollevare, spostare , svuotare casse di alimenti, di detersivi, di frutta, e i pacchi dei giornali. Mai una tregua, mai un po’ di riposo. E anche tu hai fatto la tua parte finché non è arrivata a presentarti il conto quella signora in nero, quella che non si presenta e arraffa tutto, ladra e assassina.
Non preoccuparti di me , dicevi, va ad aprire il negozio, lasciami una bottiglia d’acqua , un po’ di pane  e di formaggio, me la cavo da sola.. E invece non te la sei cavata. La signora è entrata senza bussare e ha arraffato tutta la tua vita e metà della mia.
E’ stata dura ma ho cercato di continuare come avresti voluto che facessi. Ogni giorno sveglia alle cinque, un caffè d’orzo e una getta di pane, poi via a sollevare la serranda che arrivavano i giornali e portavano il pane e si fermava il verduraio per vendermi la frutta e la verdura che mi servivano, poi entravano le tre vecchiette che tornavano dalla prima messa, i bambini che andavano a scuola,.. ma che te lo dico a fare, lo sai benissimo : non è cambiato niente in questi ultimi venti anni; sono morte la Mariuccia e l’Elvira ma sono nati tre bambini, alla fine i conti sono sempre quelli.  Però il negozio ha sempre lavorato. Non ce n’erano altro e alla sera mi prendevo un’oretta per sistemare i conti.
Mai un controllo, mai una lamentela. Mai pagata una tassa. E i soldi per la vecchiaia si accumulavano ; ho dovuto sollevare altre due mattonelle del pavimento della cucina per farceli stare tutti i risparmi. Non è andata  male. Ma tu non puoi saperlo, ma dieci anni fa hanno cambiato la moneta: dalla lira all’euro, che valeva quasi duemila lire.
E tante monetine, pensa siamo tornati ai centesimi come un tempo, quando si era giovani.
Poi tutti dicono che viviamo nell’era del progresso.
Nei primi tempi ero un po’ confuso ma ho fatto presto a capire il meccanismo e in poco tempo ho messo via molti euro.
La mia vecchiaia era al sicuro. Ma l’euro non mi piace. Non ha odori proprio come una cosa nuova. E tutto adesso costa tanto, un patrimonio. Io ho cominciato a sentire un’oppressione al petto, una stanchezza nelle gambe, nelle braccia e non avevo più voglia di sorridere alla gente, di fare tante fatiche, ogni mattina, prima dell’alba. Il negozio è sempre stato ordinato e pulito come quando c’eri tu e ho sempre fatto tutto io.
Forse ero diventato vecchio.
Sono andato da un dottore, mi ha detto che avevo il cuore stanco , che non batteva più tanto bene , che mi dovevo mettere uno stimolatore, un pace-maker. Ho chiesto quanto costava e mi ha risposto “ nulla”. Così mi sono fatto ricoverare e con questa piastra che sento nel petto in alto , non posso più morire, ma neppure faticare.
Così cinque anni fa ho venduto il negozio a Serena dei Guelfi, non te la ricorderai, era ancora una bambina. Ma ho venduto al momento giusto. Adesso c’è la disoccupazione, di soldi in giro ce ne sono pochi e quindi si vende poco e a volte a credito. Pensando di sopravvivere meglio, sono tornati i figli andati a cercare lavoro nelle città, sono incattiviti, sempre senza un soldo e quei pochi che hanno li giocano a cercare la fortuna invece di rimboccarsi le maniche e dissodare qualche terreno incolto per ricavarne un orto, un frutteto, una vigna.
Sono figli di contadini che odiano la terra. Sono dei bestemmiatori e sperperano il poco per il nulla. No, noi non abbiamo fatto così.
Questa mattina ti parlo tanto perché mi è successa una gran brutta cosa: mi hanno arrestato, i poliziotti mi hanno messo le manette, mi hanno portato in caserma, dicevano che ero un rapinatore. Ma che brutta esperienza. Non ne sono morto, vuol proprio dire che la signora in nero non mi vuole.
Mi pare di avertelo detto che le nostre lire , tutti i nostri faticati risparmi, se non le avessi portati a alla Banca d’Italia a Genova, sarebbero diventati pezzi di carta colorata. Dovevo lasciare queste colline, il paese, la gente che mi conosce da sempre e andare nella grande città per farmi cambiare quei milioni di lire in euro.
Ma questi sono tempi infidi, i delinquenti sanno sempre tutto e se la prendono soprattutto con le donne e con i vecchi.
La paura, Terè, la paura..
Ti ho già raccontato che sono andato a Miarè, il paese di là della valle, a cercare un tipaccio che mi aveva detto che si occupava di cose poco oneste.
Non volevo che pensasse che io avevo molti soldi, però gli ho detto che mi serviva una pistola, non mi sentivo più sicuro, ero vecchio e vivevo solo e tutti i vecchio sono bersaglio dei gesti delinquenziali dei giovani, ma io non volevo farmi fregare senza difendermi. Insomma l’ho così ben intortato che mi ha procurato sul momento una pistola scambiandola con mille euro. Non so se mi ha fregato o meno.
Però io , mi sentivo più sicuro andare a Genova con quella in tasca e una valigetta di milioni di lire. Ti giuro che mi sarei difeso. Mi ero fatto mettere 3 colpi in canna.
Beh, Terè, c’è chi nasce delinquente e chi no.
Non ti dico lo spavento. Poi tutti quei poliziotti con il mitra in mano e tutti che urlavano fermati o sparo, in ginocchi a terra, sdraiati…Il mio pace maker ha fatto un miracolo quel giorno. Dopo tre ore di viaggio ero giunto a Genova e avevo preso il tram per il centro. Nessuno mi ha avvicinato, nessuno mi ha guardato, anzi mi pare proprio che la gente che vive in città non guardi nessuno. Sai, avevo scelto Genova e non Alessandria o a Vercelli, perché in quelle città avrei potuto incontrare qualcuno che mi conosceva.
Sto perdendo il filo del racconto. La Banca d’Italia è situata in un bellissimo palazzo, le porte sono aperte, non c’è nessun controllo ma dentro è pieno di poliziotti, tanti poliziotti. Armati e ti guardano.
Mi sono avvicinato allo sportello e nel sollevare la borsa verso il cassiere la pistola è scivolata fuori dalle tasche ed è finita a terra.
Ti ho già detto quello che è successo lì per lì. E dopo in caserma, e l’interrogatorio e la vergogna perché i poliziotti hanno voluto accompagnarmi a casa e hanno frugato ovunque. Come fossi il peggiore dei delinquenti. Hanno trovato anche i restanti risparmi in euro. Però alla fine  mi hanno chiesto scusa e mi hanno permesso di cambiare le lire anche se il giorno di scadenza era trascorso.
E adesso Teresa mia sono stanco, vorrei che venisse la signora in nero e mi desse il bacio definitivo, freddo non tiepido come erano i tuoi baci.
Ma non viene, non viene.
E si è fatto giorno di nuovo e ho voglia di bruciare tutti quei soldi, sono come grosse catene che m’imprigionano su questa terra . Ho voglia di accucciarmi qui e di non alzarmi più, ma so che non lo farò, mi alzerò invece, mi scalderò una tazza di latte, rifarò il letto, mi vestirò e andrò a comprare il pane. Nel nostro negozio, pensa Teresina mia. Ma che vita è mai questa? “
Con un gesto stanco scostò le coperte, e afferrò gli indumenti per portarli in bagno. Si sente il rumore dello sciacquone ora, -va bene,- le sussurra, - va tutto bene.


Narda Fattori

Sonia Tri

Il frutto del gelso



Per fortuna loro, le cose, non tornano mai indietro come capita agli uomini. Restano ferme dove sono, senza rimpianti o dolore.

Il treno si fermò alla stazione improvvisamente.

Ebbe paura di scendere, di annusare i ricordi e non passò per il paese, scelse la strada della campagna per incontrare suo padre lì, prima di vederne il corpo inanimato sul suo letto. Sua madre era morta con lui ancora in braccio. Pensò a lei, guardando le spighe del grano. Non ricordava il suo volto, ma suo padre le aveva dato quello del grano, affidandolo a poche righe scritte in fondo ad un suo quaderno di scuola: "Rimangono immutati raccolti di grano, sorrisi di pane finito". Cadde in ginocchio. Lo raccolsero i genitori nel vento e si abbracciarono per la prima volta, in tutta l'esistenza. Era sporco di terra, tentò di pulirsi con il fazzoletto, ma ritrasse la mano immediatamente. La terra non sporca, onora le mani di un uomo e si ricordò di quella volta che lui e suo padre, allo sportello della posta, videro l'impiegato irrigidirsi davanti ad un vecchio contadino che firmava un documento con le mani come cortecce e unghie nere:- Io ho rispetto per quelle mani.-disse rincasando -Sono degne di essere tali. Con mani bianche e lisce non si mangia!- Non aggiunse altro. Quella sera, sotto il Gelso, continuò il discorso:- Non dimenticare mai le mani di quel vecchio, sarebbe come dimenticassi il pane, morendo di fame senza saperlo.- Poi, accarezzò il tronco dell'albero ed egli pensò che avrebbe voluto fosse stata la sua testa.
Respirò a fondo. Era diventato calmo, senza accorgersene. Un padre muore, veramente? Se lo chiese, con sollievo, perché conosceva la risposta. Era scritta in quella pianura verdeggiante che riscattava il lutto, semplicemente esistendo. Non aveva involucri, non mutava come certi animali, viveva ed il suo respiro erano le stagioni. Se suo padre fosse morto in inverno, lo avrebbe comunque incontrato lì. Scavando sotto la neve o rompendo il ghiaccio delle buche sullo sterrato.
La piccola casa bianca gli apparve in lontananza. L'ombra del Gelso gesticolava sull'asfalto. Ne osservò le foglie asciutte e lucenti. Allungò una mano per toccarle. Suo padre lo faceva sempre, prima di darle in pasto ai bachi da seta.
Provò nuovamente il calore della cucina della sua infanzia, attrezzata non solo per un'abbondante cottura di marmellate, ma anche per quello strano allevamento di insetti freddolosi e ghiotti di fiori di gelso. Quando arrivava maggio, andavano a comprare "la semenza" e lui poteva metterla sotto il suo materasso, per tenerle caldo, fino a che le piccole uova si schiudevano. Quanto rise suo padre, quando gli chiese se lui corresse il rischio di essere scambiato dai bachi, per la loro madre:-"Sono bachi, mica pulcini e tu non sei una gallina!" disse l'uomo andandosene come faceva sempre, dopo aver detto qualcosa che faceva ridere.
Così nascondeva la sua timidezza o forse andava semplicemente a finire i suoi discorsi, appoggiato alla corteccia bruna del Gelso. Lo abbracciò e con le dita entrò nelle sue rughe. Aveva sentito che ai morti la pelle torna liscia perché perdono l'età.
Quello era l'unico modo per avere tra le mani il volto vivo del padre. Chiuse gli occhi e con i palmi allargati, viaggiò lungo quella pelle vecchia e dura. Una strada senza direzioni diverse dalle sue. Lunga, fino al cuore e ritorno. Appoggiò la sua fronte a quella della corteccia. "E' morto!"-sussurrò
"Come si muore tutti, ma non tu. Conosci inverni ed estati e lo hai lasciato andare solo, per restare a vegliare i giorni che verranno.
Senza chiedere nulla, immaginando cosa direbbe ora o domani. Una terra da seminare per chi verrà. La sua eredità è fra i tuoi rami, che io tocco sperando di prendere le sue mani, i suoi piedi. Così le tue radici che corrono dentro e fuori alla terra, sono il suo sangue che circola fino al mio. Batte il suo cuore, ancora e ancora! Io e te potremo sentirlo fino alla fine. Ventre di una donna, battiti di una creatura nuova.
Ecco cos'è lui ora, una creatura nuova! Io sono più vecchio di mio padre e del tempo trascorso con lui, senza di lui. Solo! Perchè si è soli, anche se qualcuno ci salva dalla morte e tu l'hai salvato. Io vado a salutare il suo corpo spoglio come la tua corteccia d'autunno.
Sarà come salutare le brughiere d'ottobre: inanimate e grigie, infilate nella nebbia. Ma lui è libero dentro di te e nuota nella linfa.
Vola: lana delle tue fioriture e sorride nei tuoi frutti generosi. Non dirò mai più che mio padre è morto! Lo penseranno gli altri non vedendolo camminare ed io tacerò ed aspetterò le tue fioriture, senza paura di essere lontano da qui. Sordo al desiderio di ritornare, poiché non c'è motivo di farlo.
Sarà lui a seguirmi in ogni dove. Viaggiare una vita ed essere arrivati da sempre.
Ignorando quanto la nostra terra e le sue piante, abbiano già camminato molto per noi."- Non riusciva a staccare le sue mani dall'albero.
E quando lo fece vide tutte le dita impolverate di muschio secco, che restituivano tutte le stagioni. C'erano le foglie rosse, la pioggia d'ottobre e la neve di Natale. C'era il suo viaggio dentro i semi nella terra e suo padre che l'amava, l'annusava taciturno e metodico, come il Gelso suo amico che mormorava, come sempre, come se nulla fosse accaduto. Era lui l'argine di quel territorio d'infanzia che, fuggendo ad ogni prospettiva, rincorreva l'aria e il cielo, sembrava acqua bevuta da occhi che avevano guardato tutto troppo poco. Il cuore non era che un campo da seminare e c'erano le calle nei fossi. Le rane che gracidavano come le femmine quando litigano tra loro. Rise per questo, solo. Fu la ricompensa del suo ritorno, l'eredità del genitore. Sarebbe ripartito presto. Il Gelso gli diede la sua benedizione con le fronde più alte, aperte come vele in un mare nuovo. Poi, sorrise chinandosi con la chioma in avanti, come un contadino paziente sul suo raccolto. Un uomo su suo figlio sorpreso da un quadrifoglio in un campo di fili d'erba senza fortuna. Poteva bussare alla porta della piccola casa bianca.
Respirò di nuovo a fondo riguardando ogni particolare con trepidazione come se qualcuno potesse improvvisamente derubarlo di tutto.
Continuava a toccare quell'uomo che non c'era più, percependone il respiro lento, senza pianto e il suo odore buono portato dal vento, come polline a fecondare il tempo che rimane.
Era tutto perfetto: si commosse ancora, diventando piccola cosa di ogni germoglio di quella terra che non sapeva di amare tanto. Come non aveva saputo fino a quel ritorno a casa, di amare il suo vecchio. Il Gelso vibrò per l'ultima volta ed egli si mosse nella pianura serena di grano tenero, papaveri e affetti immortali dei frutti rossi di ogni primavera.

Paolo Santarone

Il branco



Che cos’è che vuole sapere? Ci rimugino da tanto di quel tempo che posso attaccare da qualsiasi punto oppure se ha voglia di ridere le racconto tutta la storia a rovescio parto da oggi e poi ieri e poi l’altro ieri…
Da dove parto insomma?
Ci penso e ci ripenso sa? Non solo al fatto ma a quello che c’è stato prima a come è brutto essere lo scemo della classe lo scemo del villaggio come quella volta che giocavamo agli indiani e l’indiano naturalmente ero io e mi hanno legato a un palo e mi hanno tirato giù i calzoni e le mutande e poi mi hanno piantato lì come se fosse la cosa più da ridere del mondo e io piangevo e urlavo e mi vergognano e poi avevo anche paura che qualche bestia venisse a mangiarmelo e quelli neanche mi sentivano perché per loro lo scherzo era finito e se n’erano andati chissà dove a fare qualcos’altro.
Che poi però uno l’ho beccato e gli ho rotto il naso con un cazzotto perché sarò anche scemo ma non sono un fighetta e se alla lunga un po’ hanno finito per rispettarmi è perché tiravo delle sventole che facevano cagar sotto. Anzi ero diventato quasi un capo perché se mi dicevano c’è quello là da menare io andavo e lo menavo senza tante storie. E una volta l'Andrea mi ha detto scommetto che hai paura di pestare il bidello e io sono uscito dalla classe e l’ho fatto nero anzi rosso per tutto il sangue che gli veniva giù dal naso e dal labbro e tutti erano lì a ridere e dopo mi hanno detto bravo Penèl, che mi chiamavano Penèl perché mio padre fa il pittore insomma l’imbianchino. E il bidello aveva tanta di quella caga che non è neanche andato a dirlo al preside e diceva in giro che era caduto per sbaglio.
E così insomma piano piano mi son fatto degli amici beh proprio amici no ma insomma stavo con loro e loro mi sfottevano poco e ci stavano attenti. E un po’ ero diventato amico con l’Andrea che mi diceva noi siamo una banda noi siamo una squadra e con te dentro facciamo il culo nero a tutti e io mi sentivo un po’ un capo, insomma, perché sapevo che la storia del culo nero era vera.
Con l’Andrea andavamo che era una meraviglia. Era il più matto di tutti, quello che gli venivano le idee più bislacche e era capace di star lì due ore a spiegarci come si potevano ciulare i vigilantes e magari fare una rapina e s’inventava di quelle stronzate così grosse che noi stavamo li a fumarcelo con gli occhi.
E una volta l’Andrea ha detto piantatela di chiamarlo Penèl, Penèl non è un nome da vero duro, io da adesso lo chiamerò la Cosa come quello dei fumetti. E così sono diventato la Cosa.
Li ho letti poi i giornali: tutte quelle cagate… La gioventù d’oggi, ma vaffanculo!
La noia, la noia sì. In discoteca ci andavamo sì e no una volta al mese perché era a casa del diavolo e ci guardavano male perché non avevamo i soldi per le consumazioni extra.
Ci divertivamo a fare i duri questo sì. Se puntavamo una ragazza il pirletto che era con lei faceva meglio a andare da qualche altra parte, e anche i buttafuori ci andavano piano. Ma poi mica che concludessimo niente! Qualche smanacciata sul culo qualche strizzata di quelle toste e poi lei di solito trovava il modo di squagliarsela e noi lì con tutti che ci guardavano male.
Dopo qualcuno di solito l’Andrea ci raccontava che l’aveva incontrata e che lei aveva detto che aveva dovuto fare la difficile perché c’erano lì dei suoi amici che rischiavano di raccontare tutto ai suoi genitori, e qui l’Andrea partiva per la tangente e raccontava che cosa aveva fatto poi con quella ragazza e come lei gridava dalla goduria e com’era bagnata e i graffi che gli aveva lasciato sulla schiena e io mi sentivo la pancia giù sotto come se quella roba mi fosse capitata a me ma gli altri dicevano che l’Andrea cacciava balle e l’Andrea mi diceva di stare calmo e di lasciare perdere che quelli erano dei bambocci stronzi e non capivano un tubo.
E a furia di parlare di puttane l’idea diventava sempre più pesante. E qualcuno diceva che se riuscivamo a beccarne una isolata allora potevamo anche passarcela tutti senza correre rischi e senza spendere una lira. Era diventata una fissazione e ce ne andavamo in giro la notte a vedere se per caso riuscivamo a beccare la Troia Solitaria come avevamo cominciato a chiamarla tra noi.
E finalmente l’abbiamo beccata. Era una mica tanto giovane una di un paese vicino non un’extra. Poi al processo hanno detto che quel mestiere lo faceva di tanto in tanto quando aveva bisogno di grano e così abbiamo capito perché se ne stava così isolata e senza neanche il pappa.
Beh insomma sempre figa era no?
La prima volta ci siamo andati io e l’Andrea da soli a tastare il terreno. Era proprio vecchia avrà avuto più di quarant’anni e non aveva neanche quell’aria sexi che avevano le altre battone giù sulla provinciale sembrava un’operaia appena uscita dalla fabbrica. L’Andrea le ha chiesto quanto voleva per tutti e due ma lei l’ha guardato male e gli ha detto di smammare. Ritorna fra cinque o sei anni, gli ha detto. Ma l’Andrea non mollava e anch’io mi ero offeso per quella faccenda che ci aveva preso per dei patoja ma quella nella borsetta doveva averci un peso o un pezzo di piombo o qualcosa così e ha cominciato a tirarci delle borsettate che a momenti ci spaccava la testa. A me mi ha preso proprio sul naso e ho cominciato a sanguinare e volevo saltarle addosso e farle vedere se ero un bambino ma l’Andrea mi ha preso per un braccio e mi ha portato via. Ma non era per paura, no, era che aveva un piano.
E quando ci siamo ritrovati con la banda l’Andrea ha detto che quella doveva pagarla e ha tirato un coltello fuori dalla tasca. Parlava calmo e freddo l’Andrea. A quella le facciamo l’operazione ha detto lui, la apriamo e guardiamo come è fatta dentro ma prima ce la scopiamo alla grande e vediamo anche come è fatta fuori, per quel povero cazzo che vale.
Ci guardavamo perché nessuno di noi aveva mai ucciso nessuno e neanche avevamo pensato di farlo. Oddio pensato sì e anche spesso… avevamo pensato di uccidere i vigilantes, le battone senegalesi, i bambini… ma erano spacconate cose dette tanto per dire… fantasie tanto per farcelo venire un po’ duro… ma ora tirarsi indietro voleva dire tradire la banda essere vigliacchi.
E poi l’Andrea ha detto la cosa che non dimenticherò mai più. Un uomo che è stato in guerra, ha detto, sa qualcosa che gli altri non sanno sa che cos’è la morte sa come si fa a uccidere. Un uomo che uccide, ha detto, sa. E mi guardava in faccia e sembrava il prete quando fa la predica e si capiva che ci credeva… si capiva che quella cosa lì era vera. E’ vera, sai? E’ vera. Io ho provato e io so.
E così la sera dopo non eravamo in due ma in tredici e le siamo saltati addosso tutti insieme le abbiamo strappato la borsetta abbiamo tirato fuori i soldi e l’abbiamo scaraventata dietro un cespuglio. Quella cagna era forte si agitava gridava e io le ho messo una mano sulla coscia che era calda e poi l’ho presa più su e pizzicavo strizzavo e lei gridava e gli altri facevano ognuno quello che si riusciva a fare in tredici su una donna e le morsicavano le tette la gola le avevano spalancato la bocca con le mani e le avevano rotto le labbra ma quella continuava a agitarsi, con quella boccaccia che era diventata grandissima e a gridare e le strappavano i capelli e sanguinava anche un occhio che era mezzo fuori.
E allora la Cosa ha piantato il coltello poco sopra la… la… oh che cretino adesso mi vergogno a dire figa… L’ha piantato profondo e ha spinto in su verso l’alto verso la pancia verso le tette insanguinate e il manico era diventato così viscido che non riuscivo più a tenerlo in mano ma quella ancora si muoveva e la Cosa ha spinto in su ancora fino a quando quella ha smesso di muoversi e di agitarsi. Mi guardava con i suoi occhi morti e storti e c’era un grande odore di merda a per via dello sbudellamento.
Mi sono alzato in piedi e gli altri non c’erano più. Ero così pieno di sangue che sembrava che l’ammazzato fossi io e c’era quell’odore caldo di sangue e d’intestini e io ero solo e avevo ucciso.
Avevamo fatto fra noi e lei tanto di quel casino che avevano finito col sentirci e così a me mi hanno preso subito. Gli altri li hanno trovati e presi un po’ per volta.
Del processo e di quello che hanno scritto i giornali mi ricordo poco salvo le incazzature che mi hanno fatto prendere con tutte quelle stronzate. Da quando sono qui, invece mi ripasso quel film parecchie volte al giorno e rivedo le cose proprio come in un film incasinato con le immagini confuse scambiate sovrapposte e sento anche gli odori… li ho nel naso e non vanno via.
Mi piacerebbe una volta o l’altra rivedere l’Andrea.

Paolo Zanardi

Don Pablo



Sono tra coloro che hanno avuto la fortuna di conoscere Don Pablo.
Accadde pochi giorni prima dell'inizio di una tiepida primavera australe, anni orsono. Settembre si dispiegava sul cielo come carta da zucchero e le nuvole vi transitavano con meditata lentezza, tanto da sembrare monaci in processione. Don Pablo era pensoso, la sua camminata esplorava adagio la sabbia tra una roccia di granito grigio e l'altra. Le onde blu cobalto esplodevano in schizzi, depositando sulla spiaggia ciottoli e cocci di quelle che dovevano essere state abitazioni di molluschi.
Fu lui a rivolgermi la parola, come se avesse avuto bisogno di comunicare a qualcuno un'inquietudine impossibile da reprimere o elaborare interiormente.
- Si annuncia una primavera dolce come in pochi altri casi è successo, non trova?
- Sì, certo... - risposi sorpreso, rimanendo in attesa che proseguisse.
- La stagione ideale per oziare lungo la spiaggia, sedere sulla cima di uno scoglio come quello - indicò con l'indice destro una roccia che interrompeva la continuità del bagnasciuga - e godersi gli spruzzi guardando il mare. Questo è il posto più bello del mondo, per certi aspetti. Lo lasci dire a me, che di angoli di globo ne ho veduti.
Pronunciando l'ultima frase aveva sollevato il viso volgendosi a oriente, in direzione dell'oceano, come a volerli abbracciare tutti con uno sguardo, quei lontani luoghi.
Non dissi nulla, percependo che il discorso di Don Pablo stava proseguendo nelle profondità dell'animo e avrebbe presto preso la forma di frasi articolate dall'intensità della sua voce.
Senza accorgercene ci incamminammo fianco a fianco, lentamente, in silenzio. Cercando di non farmi notare, lo osservai: indossava pantaloni scuri, con la piega, che un tempo dovevano essere stati eleganti; la maglia di lana sottile era d'altri tempi e altre origini: immaginai potesse averla acquistata in qualche sperduto mercato, chissà dove. Le scarpe nere avevano perso la presumibile originale lucentezza, probabilmente smerigliate dalla sabbia nel corso delle passeggiate mattutine sulla spiaggia. Teneva le maniche leggermente rimboccate, arricciate sugli avambracci, e i polsi villosi ne uscivano, così come l'orologio d'oro. La posizione del cappello, leggermente obliqua, lasciava intuire il cranio calvo. Procedeva con le braccia dietro la schiena, la mano sinistra che teneva la destra, lo sguardo cogitabondo rivolto alla sabbia e alle alghe tubolari, somiglianti a pneumatici da bicicletta sfilacciati, sputate dalle onde.
- L'Italia, per esempio. La sua Italia, - riprese improvvisamente guardandomi - Napoli, Roma, Venezia... Ah, Venezia... In quella città davvero si compie il balzo verso un'altra dimensione. Se si è predisposti, beninteso. Se ci si vuole predisporre, dovrei dire. Venezia è un autentico miracolo.
Fece una pausa, poi continuò: - Ma a Venezia il mare non è mare, è piatta acqua salmastra; gli isolotti sono canneti paludosi. Venezia è un miracolo dell'uomo, mentre questo - fece un gesto ampio con il braccio – questo è un miracolo di Dio. Un miracolo di Dio; so che le sembrerà strano detto da me, marxista convinto, ma voglio proprio dirlo così, non sono in grado di trovare espressioni migliori.
Tacque di nuovo e rimase silenzioso per un po'. Quando riprese a parlare, da qualche istante il sole stava proiettando un fascio di luce intensa sulle onde, facendosi largo tra alcuni nuvoloni che minacciavano di addensarsi.
- La primavera sarà tiepida, l'estate calda, ma non troppo. Ne avremo vino eccellente, - disse Don Pablo – proprio come quello di una certa annata che non ricordo esattamente, saranno stati due, tre anni prima della mia morte, se la memoria non m'inganna.
Si interruppe e contemporaneamente smise di camminare, si girò verso ponente e dovette ammiccare ripetutamente per le folate di brezza. Guardò la grande casa che si affacciava sulla spiaggia dall'altura e sembrava sorvegliare i nostri movimenti.
- Quella non è solo una casa, non è semplicemente un tetto sorretto da pareti. E' un veliero, è il teatro dell'opera, è un museo vivente. Quella casa è un'intera orchestra. In quella casa ho viaggiato, ho amato, ho preso per mano la vita!
Aveva parlato con enfasi. Riportò quindi la voce ad un tono più pacato, quasi intimo.
- Ne possedevo altre due, di case. Vivevano di vita propria esattamente come questa di cui le sto parlando. Pensi che a tutte avevo addirittura dato un nome, ognuno con un proprio specifico significato. Questa la battezzai con il nome di un'isola immaginaria, poi anche il luogo assunse la stessa denominazione. Dicono che io abbia dato nome e voce a queste rocce, a questa spiaggia, ma preferisco pensare che sia successo il contrario e io abbia semplicemente potuto interpretare il desiderio degli elementi, scoprendo il loro nome. Inoltre, queste creature, queste creature che i più definiscono “inanimate”, le onde, gli scogli, il vento, hanno voce propria e lei può ascoltarla, chiunque può ascoltarla, purchè lo desideri.
Don Pablo tacque e parve immergersi in lontani ricordi.
- Mi trovavo in una delle mie dimore, malato, - riprese - quando seppi della morte del presidente, il mio amico presidente. Immaginai che un clima cupo si sarebbe presto steso su tutto il paese. Non mi sbagliai. Qualcuno sostiene che gli stessi farabutti abbiano organizzato la mia morte, cioè che io, in altre parole, sia stato assassinato, avvelenato. In tutta sincerità non lo so, nè m'importa di saperlo. So però che al mio funerale vennero operai e contadini; singolare per uno che in vita si occupava soprattutto di poesia, non crede?
Si era alzato il vento e già da qualche minuto il suo sibilo andava rapidamente trasformandosi in una serie di lunghi fischi modulati. Gli uccelli marini sfidavano la corrente in attesa di prede su cui lanciarsi in picchiata, quasi immobili, sospesi nell'aria, appena dondolanti.
Quando mi voltai verso Don Pablo mi accorsi di essere rimasto solo. Mi guardai attorno, lo cercai, stupito e quasi impaurito per l'inattesa improvvisa solitudine. Di lui rimaneva un busto scolpito nel granito, a pochi passi da dove mi trovavo. Un pellicano planò e repentinamente vi si appollaiò sul capo, quasi a volersi appostare a guardia della statua. Intimorito, semplicemente mi allontanai ripensando alle parole di Don Pablo, pronunciate dalla sua voce che ancora sentivo vibrare. Ripresi a camminare lungo la spiaggia. Le mie scarpe affondavano leggermente nella sabbia inzuppata, laddove le onde giungevano solo di quando in quando. Lasciavo impronte che sparivano subito: la sabbia, gonfia d'acqua, riprendeva immediatamente il proprio stato precedente.
Proprio come il mondo, pensai. Proprio come il mondo.


A Neftalí Ricardo Reyes Basoalto,
in arte Pablo Neruda,
reo confesso d'aver vissuto.

Paolo Polvani

Smarrirsi


Pasquale Papagni si avviava nella luce del crepuscolo dopo una giornata sotto i neon.
Dalla tasca del cappotto tirava fuori il suo bravo Rousseau preso alla biblioteca comunale, o il suo Voltaire, e s'incamminava nella luce azzurrina del pomeriggio invernale.
Amava immergersi in letture ardue e indigeribili, sguazzare dentro costrutti logici di cui non afferrava il senso, dislocazioni storiche incastonate dentro pareti troppo ripide e senza appigli.
Scorreva frettolosamente intere pagine di nebbia fitta, per poi riemergere, qua e là, su picchi assolati, dove frasi illuminanti lo riscuotevano da quel peregrinare nebuloso.
Allora sostava alcuni attimi per rileggerle, per sincerarsi che quella luce fosse lì per lui.
Poi alzava il capo e masticava e rimasticava le parole lentamente, abbagliato da ognuna, e gustando i fremiti di cui disseminava la sua mente.
Poi con passo lento riprendeva la strada, di nuovo nel brusio di periodi incomprensibili e impenetrabili.
Quel brusio faceva da sfondo accattivante a un suo discorso sotterraneo e privato.
I panorami familiari qua e là squarciavano il periodare monotono , e facevano ressa intorno a una parola sgradevole.
Per scacciare le livide atmosfere dei litigi doveva riafferrarsi alla frase luminosa.
In questa baia della gioia sprofondava con voluttà nuotando da una parola all'altra e bagnandosi del solo suono che ogni parola gli sfarinava nella zucca.
Allora dimenticava le grida dei litigi che rimbombavano nel condominio e i rimbrotti della moglie, e la sua inadeguatezza a vivere.
Ma anche la strada gli capitava sovente di smarrire, e di ritrovarsi talvolta nella più indistinta periferia, o in quartieri estremi battuti da un vento desolato.
Dalla difficoltà della lettura per la fiochezza della luce si risvegliava in strade dove sguardi di donne diffidenti misuravano la sua estraneità, e da cui smarrito si affrettava a rincasare.
Quel giorno la luce illividiva quando cominciò a piovere.
Goccioloni serissimi e fitti, da fargli chiudere in fretta il libro.
Voleva restituirlo integro al sorriso freddo del bibliotecario, che rigirava il libro tra le mani, lo scrutava inquisitore per accertare eventuali infrazioni al codice del lettore diligente.
Tirò su il bavero e guardò il cielo.
Era una via grigia e abbastanza angusta.
Le finestre bianche di un ospedale limitavano la vista del cielo.
Palazzotti ancora decorosi, col portoncino dai battenti in bronzo, denunciavano che lì, anni prima, l'ala della fortuna aveva indugiato.
La pioggia non accennava a smettere e non si scorgevano ripari.
Pochi passi più avanti si spalancò un portone e ne uscirono in gran fretta due donne giovani, atterrite, vestite in modo che incuriosì Pasquale.
Poiché pioveva e le due ragazze allontanandosi avevano lasciato il portone aperto, decise di approfittarne, e non sappiamo se per sbadataggine o per naturale curiosità s'inoltrò su per le scale.
Dal primo piano veniva un tramestio confuso, grida soffocate.
La porta era aperta e una luce tracciava geometrie sul pianerottolo.
Lo stranissimo suono di una voce proveniente da un angolo estremo dell'animo umano, più che da un luogo fisico assimilabile a caverna, o ferraglia, ne attirò l'attenzione.
Riuscì a decifrare ben poco, gli sembrò di afferrare: - Dove va signor gerente, al negozio? Riferirà tutto fedelmente ? In certi momenti ci si può sentire incapaci di lavorare, ma proprio allora bisogna ricordarsi dei servizi che un dipendente ha reso e avere fiducia che una volta sorpassato il momento critico questi tornerà a lavorare ancor meglio di prima.
Io sono molto obbligato al signor principale. -
Questo gli sembrò di capire. Poi dalla porta, camminando all'indietro, venne fuori quello che sembrava il signor gerente, a passi contratti e visibilmente inorridito, col braccio alzato e il pugno stretto sulla bocca.
Arretrando sul pianerottolo si afferrò alla ringhiera, quasi inciampò in Pasquale, poi voltosi di scatto a grandi passi divorò le rampe che lo separavano dal portone.
Pasquale udì come un sibilo.
- E' inaudito, il buon nome della ditta, il principale ne sarà sconvolto. Noi che tanto facemmo per lui ripagarci così, con uno scandalo, una mostruosità indicibile. -
Lo sguardo di Pasquale era rimasto attaccato alla traiettoria del gerente lungo le scale, alle frasi smozzicate che venivano su dalla precipitosa corsa.
La sua attenzione si volse a un pianto sommesso e disperato che veniva dall'interno dell'appartamento, insieme ad una voce maschile che gridava.
Sembrava la voce di un domatore che volesse ricacciare la belva ribelle alla sua gabbia.
Pasquale tentò di sbirciare attraverso la porta aperta.
Scorse un uomo alto, robusto, quasi grasso, che con un bastone in mano e un giornale nell'altra menava gran fendenti e puntava i piedi, a buffi saltelli.
Timidamente Pasquale avanzò d'un passo. Oltre l'ingresso s'intravedeva una tavola riccamente apparecchiata. La tovaglia col merletto, di stoffa spessa e robusta, d'un bel colore autorevole, e belle porcellane celesti, un'argenteria pesante, e tutto in bell'ordine, specchio d'un solido e avveduto rigore familiare.
Sarebbe stato perfetto se una caffettiera rovesciata non avesse deturpato tutto con l'implacabile fiotto di caffè sgocciolante a rivoli diversi lungo la tovaglia, e giù fino al tappeto, dove una donna dai capelli scomposti, in vestaglia, il volto atterrito, piangeva.
Come invasata si alzò e uscì dalla stanza.
Si udì spalancare una finestra, nell'appartamento si formò una forte corrente, i giornali sul tavolo frusciarono.
Pasquale ebbe paura, ma la curiosità lo spinse a varcare la soglia e infilare il capo oltre la porta.
Una bella targa dorata recava in corsivo nero sulla bombatura la scritta Max Samsa.
L'ingresso era piccolo ma decoroso, con un tappeto consumato ai bordi e sfrangiato.
Fu allora che Pasquale vide Gregorio. Nella luce fioca della stanza, oltre l'uomo che pestava i piedi e urlava, si apriva solo per un battente una porta.
Pasquale scorse un insetto nero dalle dimensioni spaventose. La punta massima della corazza superava il piano di una sedia, e la lunghezza quella di un bambino sdraiato.
Scarafaggio o scarabeo non avrebbe saputo dire.
Era un insetto terrificante, impegnato in una difficile manovra di arretramento.
L'uomo urlava e lo minacciava con il bastone levato: - Torna in camera tua, bestiaccia!. -
e faceva sibilare il bastone.
- Signor padre abbia pazienza, sono avversità che non accadono tutti i giorni, e nella mia forma presente trovo difficoltà a manovrare codesto ingombrante corpo. La prego di usarmi una qualche forma di benevolenza. Comprenda, anche mia madre ne è turbata, la poverina, e forse avrebbe bisogno di una parola di incoraggiamento. Vedrà che questo increscioso incidente si appianerà, tutto ritornerà normale, ve l'assicuro, Grete tornerà col signor dottore, che mi saprà ripristinare alla mia originaria forma. La prego, non tempesti l'aria di tali spaventose scudisciate, ne ho paura e del resto lo vede, l'animo mio è mite, sebbene l'aspetto incuta ribrezzo, e mia intenzione è tornare alla mia stanza, se appena ci riesco. -
Queste le parole, percepite in forma di rantolo. Quando Gregorio taceva, la grande bocca andava in su e in giù, in perpetuo ruminare, e un sibilo sottile veniva dalle antenne.
Ma il padre non s'impietosì. E seguitava a menar fendenti col bastone, mentre col giornale ripiegato si batteva il ginocchio sinistro, per rendere più minacciose le ingiunzioni.
Dopo manovre rischiose e sanguinolente il padre riuscì con un colpo secco a ricacciarlo nella sua stanza.
La porta fu sbattuta violentemente col bastone, e poi si fece infine il silenzio. L'uomo si fermò al centro della stanza, le domestiche armi ancora strette nelle mani abbandonate lungo il corpo, la testa reclinata scossa dai singhiozzi.
Pasquale avanzò. - Vedrà che tutto si sistemerà, signor Samsa, un mio zio ebbe un figlio col labbro leporino. -
Pasquale aveva indirizzato queste brevi frasi di circostanza molto timidamente, a voce bassa.
Il padre di Gregorio, di spalle, girò la testa stranamente, come fanno i cani davanti alla novità di un suono mai udito.
Poi lentamente si girò verso Pasquale, e brandendo ancora il bastone urlò: - E lei chi è ? che cosa vuole da questa sventurata famiglia? Sparisca! Nessuno deve sapere della sciagura piovuta in questa casa rispettata. Vada via! Vada via!. - e minacciava col bastone.
Pasquale arretrò, guadagnò le scale e con molta compunzione, dettatagli dalla gravità del caso, ma anche con solerte prudenza, ridiscese le tre rampe di scale.
Dall'appartamento gorgogliavano ancora le minacce del signor Samsa, quando una figurina bionda, esile, risalì le scale.
Era evidentemente la Grete di cui farfugliava Gregorio, la riconobbe per la sollecita premura con cui andava, e per il dolore che le stringeva il petto.
Incrociando lo sguardo mite di Pasquale ne intuì la considerazione benevola, e stringendosi nelle spalle, addossatasi al muro: - Ha visto il mio signor fratello ? -, chiese timidissima.
- Dunque egli è diventato d'un tratto così spaventoso alla vista ? - Pasquale la fissava in silenzio.
- Egli era tanto buono con me. Sognava di guadagnare abbastanza da mantenermi al conservatorio. Il mio desiderio è approfondire lo studio del violino. E ora invece...-
Sommessa risalì le scale in fretta, mentre Pasquale usciva dal portone.

Paolo Santarone

E fuori, il mondo…


Io la Natalina non l’ho conosciuta. A parlarcene era la Carla, l’unica persona che si prendesse cura di lei. Ora che la vecchina è morta, la mia amica rifiuta quasi irosamente d’ammettere che nessuno, lei compresa, avrebbe potuto provare un po’ d’affetto per la Natalina, ma io so che mente: la accudiva per un suo personale senso del dovere e della pietà, ma volerle bene era proprio una cosa impossibile.
Viveva in una perenne paura degli altri, convinta che il mondo intero congiurasse per derubarla o per deriderla. Non dava niente e non chiedeva niente.
Si sapeva che aveva un po’ di soldi da parte, ma a lei bastavano poche migliaia di lire (o si dovrebbe dire oggi pochi euro?) per vivere la sua lunga sopravvivenza settimana dopo settimana. Si cibava di quel che capitava, comprando sì e no il pane e un po’ di latte o qualche uovo. Niente frigorifero, naturalmente, e un fornelletto a due fiamme che usava il più raramente possibile. Aveva il riscaldamento in casa ma non lo usava: rubava quel po’ di tepore che poteva arrivarle dagli appartamenti vicini e nei mesi freddi s’infagottava in strati di vestiti che la rendevano gonfia come un clown. D’altronde, di casa non usciva quasi mai: anche se credo non disdegnasse, non vista, qualche rovistatina nei bidoni della spazzatura, non era una barbona da strada, anzi difendeva con caparbietà un decoro che poteva essere salvaguardato solo con l’artificio dell’autoreclusione. Solo Carla e l’amministratrice del condominio avevano accesso alla prima stanza dell’appartamento della Natalina, che la vecchia teneva in ordine, io credo, solo in attesa di quelle loro visite. Le altre stanze erano precluse e segrete.
Nessuno al mondo amava la Natalina e la Natalina non amava nessuno al mondo, meno che mai quelle sue parenti che l’avevano lasciata sola, dopo averla vanamente circuita per carpirle – così lei sosteneva – qualche bene, qualche soldo, qualche chissacosa.
Un giorno l’amministratrice telefona alla Carla: di punto in bianco, la Natalina ha deciso di farsi ricoverare in un ospizio. E’ meglio così – ha detto, – così non do disturbo a nessuno. E senza dare disturbo a nessuno la novatatreenne Natalina è morta una ventina di giorni dopo il ricovero.
Con sua sorpresa e con tremendi sensi di colpa (è fatta così, che cosa possiamo farci?) la Carla si scopre erede universale: novantotto mila euro sul libretto al portatore e l’appartamento, vecchio ma con vista sul lago, e in pieno centro della cittadina.
Da padrona, ora la Carla può finalmente entrare anche nelle altre stanze. L’effetto d’insieme è disastroso: la decadenza, lo squallore, l’accumulo irragionevole d’ogni sorta di cose brutte e inservibili fanno della casa un antro senza tempo e senza gloria, nel quale però spunta qua e là un oggetto degno d’essere salvato. C’è di tutto: qualche mobile antico e di un certo valore insieme a mutande vecchie di quasi un secolo, coperte UNRA e porcellane locali ormai rese preziose dall’antichità e dal buono stato di conservazione. E ci sono, nascosti nei posti più impensabili, i biglietti: decine e decine di biglietti conservati dalla Natalina a futura memoria.
Dopo aver commesso l’errore di parlarmi dei biglietti, ora la Carla si è pentita perché teme che la mia curiosità possa tradursi in una profanazione. Ora dice che non è vero, che di biglietti ce n’erano pochissimi. E così dopo giorni di pressioni e contrattazioni sono riuscito a ottenere solo tre foglietti manoscritti. Forse sono quelli che la Carla considerava più nobili, o almeno più innocui.
Li ho qui. Li ho disposti in un ordine che mi sembra il più logico. E ora gioco ad inventarmi un personaggio basandomi sull’unica tenue traccia di questi tre fogliettini di carta.
Il primo mi sembra un tentativo di spiegazione, una giustificazione di quella vita così priva di ragioni.
Un infanzia patita dura tutta la vita.
Una vita negli anni più belli con delle preoccupazione e tribulazioni così detesto gli sprechi in realtà non riesco a buttare via niente. Quello che ò lo sudato a spremere i miei soldi vien fuori sangue e sudore. Nel sangue ò una montagna di amaresse e così mi sento distaccata da tutti.
Non abbiamo mai avuto affetto ne compressione. Quando non ci sarò più che verrete in possesso dei mie risparmi abbiate la compiacenza di leggere questi scritti. Sono diventata così staccata per i torti che ò subiti durante la vita.
Eh, la nostra Natalina letterata! La grafia è ordinata, precisa, con qualche svolazzetto elegante che fa perdonare gli errori che ho fedelmente trascritto. Sbaglio o la prima riga è un distico mascherato?
Un’infanzia patita
Dura tutta la vita
Due settenari in rima: anche se la Carla non vuole capirlo, la Natalina scriveva per i posteri. E d’altronde è lei stessa ad invocare “la compiacenza” di leggere i suoi scritti.
Anche questo che è indirizzato a Dio.
O mio Dio jahvè liberami dalle incertezze della vita dall’anzia e da quel senzo di paura che è in me; non mi lasciare così te ne prego ardentemente esaudiscimi le mie preghiere. Illuminatemi la mia intelligenza che io possa capire quando tu mi dai la grazia di qualcosa che io possa bene accettarla. Porta la grazia e il sorriso al mio cuor fa che la mia V. possa avere la gioia di vivere.
E sul retro dello stesso foglietto:
O mio Dio jahvè io mi rivolgo a voi per avere avere aiuto e protezione fammi la grazia che gli impiegati di … mi facciono le cose giuste onemente. Esaudiscimi le mie preghiere io sono sola ò tanto bisogno del tuo aiuto. Fammi la grazia che il porta lettere mi porti la mia corrispondenza specialmente le lettere dalla ba… con su i miei interessi.
E’ proprio pensando ai posteri che la Natalina omette di far nomi, antesignana della privacy. Chi è o che cos’è la “V.”? la mia “V.”? Difficile, conoscendo la vecchia, pensare a una persona, ma chi se non una persona può provare gioia di vivere? Dunque c’era qualcun’altra, oltre alla Carla e all’amministratrice? Qualcuna così cara da meritare quell’attributo di “mia”?
Considerato il contesto, “la mia V.” potrebbe essere semplicemente “la mia vita” e così avevo interpretato ad una prima lettura. Ma ora non so più. Un amore segreto nella storia della Natalina? E’ questa la ragione dell’improvvisa reticenza della Carla?
Nessun mistero, invece nella preghiera scritta sul verso: a matita – e probabilmente nel dubbio che Dio potesse non capire o mal indirizzare la sua grazia – la Natalina ha scritto in margine nome e cognome degli impiegati, e la “ba…” non può essere altro che la banca, il cui nome è però scrupolosamente omesso.
Mi piace, francamente, la semplicità di questa commistione fra Jahvè, Mammona e (forse?) Venere. Se il mondo spirituale della vecchia era questo, per quale ipocrisia avrebbe dovuto censurare perfino queste “lettere a Dio” scritte nel segreto dell’anima?
Il terzo e ultimo biglietto è il più lungo e il più cronachistico. Questa volta sono io a dover applicare degli omissis, perché, ovviamente, nessun riferimento è mai – né qui né altrove – puramente casuale.
44 anni fa morì la proprietaria dove abitavamo. A Laveno è sempre stato così a trovare case in afitto è dificile, preferivono afitarle ammobiliate. E siamo stete costrette a comprare un piccolo appartemento. A quei tempi vi erano tanti che costruivano appartementi in condominio. Allora le paghe era basse, la Giulia di notte non dormiva diceva lavoriamo tutte 2 nella medesima Fabbrica se per mancanza di lavoro la chiudessero cosa facciamo. Si mangiava solo pane niente divertimenti. Abbiamo trovato di fare le cassiere qui a Laveno al cinema * e Giulia a **. Di domenica era al pomeriggio e alla sera era continuato, e in settimana solo 3 giorni solo alla sera, e di giorno in Fabbrica. I sacrifici li abbiamo fatti noi 2. Perché pretendere la nostra roba. Quando Giulia non stava bene mi diceva, io muoio presto e tu se trovi una persona che ti aiuta e ti guarda nella tua vecchiaia lascia lappartemento, se non la trovi lascia la casa a quelli dei tumori.
Abbiamo assistito il dolore di nostra madre morta di tumore. Abbiamo fatto tanti sacrifici per comprare le medicine, a quei tempi le malattie croniche la mutua non passava niente. Il medico era il dottore *** era uno che andava a letto con i suoi pazienti,
Se fossi stata una di quelle… mi avrebbe aiutata cambiando la malattia in cualcosa daltro.
E’ tutta qui la storia di Natalina l’avara, di Natalina la cattiva? Bastano tre foglietti a raccontare una vita? Forse la mia amica Carla sa più cose, forse protegge qualche altro segreto affidato ai bigliettini che arricchirebbe le sfaccettature del personaggio. Ma io so e posso raccontare solo quello che si legge in quei tre foglietti.
Ora la Carla si tormenta per quell’eredità che la offende. Non l’ho fatto per il denaro, dice. E ha deciso di tenersi l’appartamento e di consegnare i soldi a due lontane nipoti della Natalina. Abbiamo cercato di spiegarle che la vecchia si rivolterà nella tomba, ma la Carla è irremovibile.

Francesco Paolo Dellaquila

Il mio spazio


Oggi sono stato svegliato da un raggio di luce tenacemente passato da una finestra appena socchiusa. Altre volte ero rimasto infastidito ma, stamattina, mi ha preso per mano per condurmi al nuovo giorno. La mia stanza da letto è molto ampia, i mobili sono tra il moderno e l’antico, alcuni piccoli soprammobili donano all’ambiente un’atmosfera decisamente allegra. Non appena mi sveglio, non posso fare a meno di infilarmi una vestaglia e dirigermi verso il balcone per guardare il cielo. Se potessi, uscirei completamente nudo! Il mio spazio è lì. Quel cielo può essere di qualsiasi colore, ma i miei occhi non possono aprirsi se non li sollevo prima verso l’alto per gustarlo. Se c’è pioggia, mi piacerebbe tanto bagnarmi, inzupparmi in quella innegabile festa del cielo e seguire le nuvole per guardare anche oltre. Se c’è neve ancor più trovo pace per quella candida parte di cielo che viene giù leggera. Con questa idea, anche nel cono d’ombra più assoluto della notte, il mio pensiero può indagare senza perdersi. Prima, però, non era così.
Un giorno, in un momento di sconforto, mi chiesi come fosse possibile non trovare una via d’uscita, cercare di smettere di essere un attore bendato, di essere un automa senza scelta, un uomo che potesse ritrovare la giusta via dopo la perdita dell’orientamento.
Alcuni bambini, giocando nel cortile, facevano un fracasso infernale e a nulla valse sbarrare porte e finestre. Mi sembrava d’impazzire, ero tentato di emettere un grido liberatorio, o ancor peggio, di scendere giù per le scale ed affrontare il problema con violenza. Ma, per fortuna, bloccai quell’impulso insensato. Pensai, mi allontanai mentalmente da quel baccano, tentai di modificarne la ricezione, immaginai addirittura di ascoltare una dolce melodia di Chopin. Mi avvicinai alla finestra, l’aprii e guardai il cielo, poi quei ragazzini. Mi sembrò impossibile, ma ciò che poco prima m’infastidiva, adesso quasi cominciava a piacermi. Poco prima avevo desiderato il buio e il silenzio credendo di poter sopportare meglio il dolore. Mi accorsi che mi sbagliavo: “se fosse stato buio, non sarebbero stati assenti solo quei ragazzini, ma anche tutto ciò che c’era intorno. Per tale assenza, poi, come avrei potuto giustificare anche la mia esistenza?”
Oggi la mia non è una stanza e neppure un ufficio. I mobili, le suppellettili, la chitarra, il pianoforte, i dischi, i libri, il computer, non sono tenuti insieme da quattro mura; non c’è una finestra e neppure una porta. Con loro vivo fuori, all’aperto sotto un unico cielo. Anche quando giunge la sera e poi la notte, quel manto nero punteggiato di piccole gemme, ugualmente mi dona la gioia di essere libero.
Il mio spazio non c’è dove lo cerco e neppure dove lo trovo se la mia vista è tagliata da un muro. Non c’è posto in cui potrei sentirmi presenza attiva se non oltre ogni perimetro. Non sopporterei che il mio pensiero fosse inesorabilmente chiuso, ingabbiato. Il mio spazio giunge in punta di piedi come figlio del silenzio anche nel groviglio di moltitudini voci. Trovo il mio silenzio nell’insieme ed è un silenzio affascinante, amabile, dolce. Nel suo mistero non c’è l’inutile vuoto, ma infinite essenze. In questa realtà universale posso espandermi, illimitatamente identificarmi, posso essere io stesso uno spazio infinito… che gioca con quei ragazzini.