Francesco Paolo Dellaquila

Il mio spazio


Oggi sono stato svegliato da un raggio di luce tenacemente passato da una finestra appena socchiusa. Altre volte ero rimasto infastidito ma, stamattina, mi ha preso per mano per condurmi al nuovo giorno. La mia stanza da letto è molto ampia, i mobili sono tra il moderno e l’antico, alcuni piccoli soprammobili donano all’ambiente un’atmosfera decisamente allegra. Non appena mi sveglio, non posso fare a meno di infilarmi una vestaglia e dirigermi verso il balcone per guardare il cielo. Se potessi, uscirei completamente nudo! Il mio spazio è lì. Quel cielo può essere di qualsiasi colore, ma i miei occhi non possono aprirsi se non li sollevo prima verso l’alto per gustarlo. Se c’è pioggia, mi piacerebbe tanto bagnarmi, inzupparmi in quella innegabile festa del cielo e seguire le nuvole per guardare anche oltre. Se c’è neve ancor più trovo pace per quella candida parte di cielo che viene giù leggera. Con questa idea, anche nel cono d’ombra più assoluto della notte, il mio pensiero può indagare senza perdersi. Prima, però, non era così.
Un giorno, in un momento di sconforto, mi chiesi come fosse possibile non trovare una via d’uscita, cercare di smettere di essere un attore bendato, di essere un automa senza scelta, un uomo che potesse ritrovare la giusta via dopo la perdita dell’orientamento.
Alcuni bambini, giocando nel cortile, facevano un fracasso infernale e a nulla valse sbarrare porte e finestre. Mi sembrava d’impazzire, ero tentato di emettere un grido liberatorio, o ancor peggio, di scendere giù per le scale ed affrontare il problema con violenza. Ma, per fortuna, bloccai quell’impulso insensato. Pensai, mi allontanai mentalmente da quel baccano, tentai di modificarne la ricezione, immaginai addirittura di ascoltare una dolce melodia di Chopin. Mi avvicinai alla finestra, l’aprii e guardai il cielo, poi quei ragazzini. Mi sembrò impossibile, ma ciò che poco prima m’infastidiva, adesso quasi cominciava a piacermi. Poco prima avevo desiderato il buio e il silenzio credendo di poter sopportare meglio il dolore. Mi accorsi che mi sbagliavo: “se fosse stato buio, non sarebbero stati assenti solo quei ragazzini, ma anche tutto ciò che c’era intorno. Per tale assenza, poi, come avrei potuto giustificare anche la mia esistenza?”
Oggi la mia non è una stanza e neppure un ufficio. I mobili, le suppellettili, la chitarra, il pianoforte, i dischi, i libri, il computer, non sono tenuti insieme da quattro mura; non c’è una finestra e neppure una porta. Con loro vivo fuori, all’aperto sotto un unico cielo. Anche quando giunge la sera e poi la notte, quel manto nero punteggiato di piccole gemme, ugualmente mi dona la gioia di essere libero.
Il mio spazio non c’è dove lo cerco e neppure dove lo trovo se la mia vista è tagliata da un muro. Non c’è posto in cui potrei sentirmi presenza attiva se non oltre ogni perimetro. Non sopporterei che il mio pensiero fosse inesorabilmente chiuso, ingabbiato. Il mio spazio giunge in punta di piedi come figlio del silenzio anche nel groviglio di moltitudini voci. Trovo il mio silenzio nell’insieme ed è un silenzio affascinante, amabile, dolce. Nel suo mistero non c’è l’inutile vuoto, ma infinite essenze. In questa realtà universale posso espandermi, illimitatamente identificarmi, posso essere io stesso uno spazio infinito… che gioca con quei ragazzini.

5 commenti:

  1. Mi e' piaciuto molto FPD, la tua prosa e' ricca e delicata insieme, nella scorrevolezza invita comunque a pause di riflessione. Un autobiografico interessante, merce rara... Grazie.
    C.Z.

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  2. Un bello spaccato dell'ambiente domestico e interiore dell'autore. Complimenti.

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  3. E' un racconto senza una storia, eppure riesce a interessare e coinvolgere

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    1. Infatti, non ha la pretesa di poter essere classificato come letteratura narrativa.

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  4. Il potere dell'autosuggestione, grande potere!
    Ma quella sofferenza la trovo una stonatura. Una tale fantasia dovrebbe averla bandita da un pezzo. Mi piaciucchia.

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