Sonia Tri

Il frutto del gelso



Per fortuna loro, le cose, non tornano mai indietro come capita agli uomini. Restano ferme dove sono, senza rimpianti o dolore.

Il treno si fermò alla stazione improvvisamente.

Ebbe paura di scendere, di annusare i ricordi e non passò per il paese, scelse la strada della campagna per incontrare suo padre lì, prima di vederne il corpo inanimato sul suo letto. Sua madre era morta con lui ancora in braccio. Pensò a lei, guardando le spighe del grano. Non ricordava il suo volto, ma suo padre le aveva dato quello del grano, affidandolo a poche righe scritte in fondo ad un suo quaderno di scuola: "Rimangono immutati raccolti di grano, sorrisi di pane finito". Cadde in ginocchio. Lo raccolsero i genitori nel vento e si abbracciarono per la prima volta, in tutta l'esistenza. Era sporco di terra, tentò di pulirsi con il fazzoletto, ma ritrasse la mano immediatamente. La terra non sporca, onora le mani di un uomo e si ricordò di quella volta che lui e suo padre, allo sportello della posta, videro l'impiegato irrigidirsi davanti ad un vecchio contadino che firmava un documento con le mani come cortecce e unghie nere:- Io ho rispetto per quelle mani.-disse rincasando -Sono degne di essere tali. Con mani bianche e lisce non si mangia!- Non aggiunse altro. Quella sera, sotto il Gelso, continuò il discorso:- Non dimenticare mai le mani di quel vecchio, sarebbe come dimenticassi il pane, morendo di fame senza saperlo.- Poi, accarezzò il tronco dell'albero ed egli pensò che avrebbe voluto fosse stata la sua testa.
Respirò a fondo. Era diventato calmo, senza accorgersene. Un padre muore, veramente? Se lo chiese, con sollievo, perché conosceva la risposta. Era scritta in quella pianura verdeggiante che riscattava il lutto, semplicemente esistendo. Non aveva involucri, non mutava come certi animali, viveva ed il suo respiro erano le stagioni. Se suo padre fosse morto in inverno, lo avrebbe comunque incontrato lì. Scavando sotto la neve o rompendo il ghiaccio delle buche sullo sterrato.
La piccola casa bianca gli apparve in lontananza. L'ombra del Gelso gesticolava sull'asfalto. Ne osservò le foglie asciutte e lucenti. Allungò una mano per toccarle. Suo padre lo faceva sempre, prima di darle in pasto ai bachi da seta.
Provò nuovamente il calore della cucina della sua infanzia, attrezzata non solo per un'abbondante cottura di marmellate, ma anche per quello strano allevamento di insetti freddolosi e ghiotti di fiori di gelso. Quando arrivava maggio, andavano a comprare "la semenza" e lui poteva metterla sotto il suo materasso, per tenerle caldo, fino a che le piccole uova si schiudevano. Quanto rise suo padre, quando gli chiese se lui corresse il rischio di essere scambiato dai bachi, per la loro madre:-"Sono bachi, mica pulcini e tu non sei una gallina!" disse l'uomo andandosene come faceva sempre, dopo aver detto qualcosa che faceva ridere.
Così nascondeva la sua timidezza o forse andava semplicemente a finire i suoi discorsi, appoggiato alla corteccia bruna del Gelso. Lo abbracciò e con le dita entrò nelle sue rughe. Aveva sentito che ai morti la pelle torna liscia perché perdono l'età.
Quello era l'unico modo per avere tra le mani il volto vivo del padre. Chiuse gli occhi e con i palmi allargati, viaggiò lungo quella pelle vecchia e dura. Una strada senza direzioni diverse dalle sue. Lunga, fino al cuore e ritorno. Appoggiò la sua fronte a quella della corteccia. "E' morto!"-sussurrò
"Come si muore tutti, ma non tu. Conosci inverni ed estati e lo hai lasciato andare solo, per restare a vegliare i giorni che verranno.
Senza chiedere nulla, immaginando cosa direbbe ora o domani. Una terra da seminare per chi verrà. La sua eredità è fra i tuoi rami, che io tocco sperando di prendere le sue mani, i suoi piedi. Così le tue radici che corrono dentro e fuori alla terra, sono il suo sangue che circola fino al mio. Batte il suo cuore, ancora e ancora! Io e te potremo sentirlo fino alla fine. Ventre di una donna, battiti di una creatura nuova.
Ecco cos'è lui ora, una creatura nuova! Io sono più vecchio di mio padre e del tempo trascorso con lui, senza di lui. Solo! Perchè si è soli, anche se qualcuno ci salva dalla morte e tu l'hai salvato. Io vado a salutare il suo corpo spoglio come la tua corteccia d'autunno.
Sarà come salutare le brughiere d'ottobre: inanimate e grigie, infilate nella nebbia. Ma lui è libero dentro di te e nuota nella linfa.
Vola: lana delle tue fioriture e sorride nei tuoi frutti generosi. Non dirò mai più che mio padre è morto! Lo penseranno gli altri non vedendolo camminare ed io tacerò ed aspetterò le tue fioriture, senza paura di essere lontano da qui. Sordo al desiderio di ritornare, poiché non c'è motivo di farlo.
Sarà lui a seguirmi in ogni dove. Viaggiare una vita ed essere arrivati da sempre.
Ignorando quanto la nostra terra e le sue piante, abbiano già camminato molto per noi."- Non riusciva a staccare le sue mani dall'albero.
E quando lo fece vide tutte le dita impolverate di muschio secco, che restituivano tutte le stagioni. C'erano le foglie rosse, la pioggia d'ottobre e la neve di Natale. C'era il suo viaggio dentro i semi nella terra e suo padre che l'amava, l'annusava taciturno e metodico, come il Gelso suo amico che mormorava, come sempre, come se nulla fosse accaduto. Era lui l'argine di quel territorio d'infanzia che, fuggendo ad ogni prospettiva, rincorreva l'aria e il cielo, sembrava acqua bevuta da occhi che avevano guardato tutto troppo poco. Il cuore non era che un campo da seminare e c'erano le calle nei fossi. Le rane che gracidavano come le femmine quando litigano tra loro. Rise per questo, solo. Fu la ricompensa del suo ritorno, l'eredità del genitore. Sarebbe ripartito presto. Il Gelso gli diede la sua benedizione con le fronde più alte, aperte come vele in un mare nuovo. Poi, sorrise chinandosi con la chioma in avanti, come un contadino paziente sul suo raccolto. Un uomo su suo figlio sorpreso da un quadrifoglio in un campo di fili d'erba senza fortuna. Poteva bussare alla porta della piccola casa bianca.
Respirò di nuovo a fondo riguardando ogni particolare con trepidazione come se qualcuno potesse improvvisamente derubarlo di tutto.
Continuava a toccare quell'uomo che non c'era più, percependone il respiro lento, senza pianto e il suo odore buono portato dal vento, come polline a fecondare il tempo che rimane.
Era tutto perfetto: si commosse ancora, diventando piccola cosa di ogni germoglio di quella terra che non sapeva di amare tanto. Come non aveva saputo fino a quel ritorno a casa, di amare il suo vecchio. Il Gelso vibrò per l'ultima volta ed egli si mosse nella pianura serena di grano tenero, papaveri e affetti immortali dei frutti rossi di ogni primavera.

6 commenti:

  1. che sia prosa o poesia, Sonia racconta con vivi colori un mondo contadino che si è perso nella memoria, in cui ogni momento è un "rito" d'incontro con la natura: il grano, il gelso , la semina... e quelle mani "sante" unte di terra e di pane raccontano quelle commozioni vivide che solo con gli occhi posso prendere forma! Ecco una delle qualità di Sonia: dare "occhi" ai suoi scritti, o meglio rende vive le immagini agli occhi del lettore...

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  2. Una rievocazione di un mondo di sofferenze, di fatiche, di sentimenti e silenzi, ma un mondo che non sarà mai perduto perché appartiene a una memoria ormai collettiva, che si fa storia documentaria, ma anche arte, che quel modo è capace di restituire al presente che ci appartiene. Proprio qui, attraverso l'arte del suo limpido e delicato raccontare, Sonia Tri ci riconduce a una vicenda che è anche una storia dell'anima umana e di un mondo variegato, che viene accolto nel nostro intimo allo stesso modo in cui si accoglie una sorta di sacra universalità che tutto contiene, che di tutto ci parla. Attraverso le immagini evocate da semplici frasi, attraverso semplici scambi di frasi fra i personaggi si fa concreto e presente in noi un mondo, che consacrato dal soffio dell'arte, abiterà per sempre la nostra anima.

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  3. Prosa lirica? Un racconto intensissimo di moti d'anima e di memoria, in una lingua lussuosa. Non so se c'è pertinenza, ma mi ha ricordato "Un altare per la madre", di un conterraneo di Sonia, Sgorlon.

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  4. Mi sembra che il cuore del racconto sia racchiuso in questa semplice domanda: un padre muore veramente? e tutto il racconto non sia che la risposta a questa domanda, no, un padre non muore mai veramente.
    - La sua eredità è fra i tuoi rami, che io tocco sperando di prendere le sue mani, i suoi piedi. Così le tue radici che corrono dentro e fuori alla terra, sono il suo sangue che circola fino al mio. Batte il suo cuore, ancora e ancora! Io e te potremo sentirlo fino alla fine. Ventre di una donna, battiti di una creatura nuova.-
    Il racconto è impastato con linguaggio poetico (l'ombra del gelso gesticolava sull'asfalto..) e con residui di memoria di un mondo ormai scomparso (con mani bianche e lisce non si mangia). Il risultato è accattivante, e il protagonista, il gelso, diventa per noi un punto di riferimento, l'idea stessa del sacro.

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  5. Un bel racconto, ben scritto, che mantiene in vita la memoria e ciò di cui essa è fatta. Ancora una volta la prosa di Sonia Tri cammina sul confine con il territorio della poesia, grazie ad un linguaggio personale e piacevolmente riconoscibile.

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  6. Ci sei tutta in questo brano, Sonia. Traspari per intero,in delicatezza,in sensibilità umana,per quel tuo amore per la natura,che sia essa un albero di gelso o una distesa di papaveri o una spiga di grano,per il tuo pietoso rispetto nei confronti della la morte. Il forte valore che attribuisci alla famiglia e agli affetti sui quali essa si sostiene mi colpisce per la fede e la convinzione con cui lo racconti. C'è poi tanta poesia nel tuo narrare, tanto puro lirismo, che solo chi nasce poeta sa infondere al suo narrato.Grazie per esserci, splendida penna di donna ! nunzia

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