Sonia Tri

Ali di pollo




Dallo sterrato bianco si levavano leggere spirali di polvere.
Dalle folte chiome degli ulivi proveniva, insistente e monotono, il frinire delle cicale oziose e, in lontananza, la sagoma della piccola chiesa rassicurava della presenza di Dio tutta la campagna arsa dal calore che si estendeva da ogni parte silenziosa e inodore.
Il bambino scalzo avanzava con una coda di lucertola in mano, castigando la fame, nella cattura dispettosa di quel piccolo trofeo
che stringeva nel pugno: unico avere della giornata. Stava aspettando che qualche amico lo raggiungesse prima dell'imminente partenza. Non mancava molto a che quell'uomo, conosciuto qualche giorno prima, venisse a prenderlo per portarlo a lavorare nella sua masseria vicino al mare, allontanandolo dalle scorribande con gli altri figli della miseria. Aveva avuto il coraggio di scegliere da solo di andare, a otto anni, quando la fame esclude i vantaggi anche dell'età così giovane. Dissacrandone la tenerezza, profanandone l'innocenza. Quell'uomo sarebbe arrivato presto, lo avrebbe prelevato nonostante le lacrime di sua madre, la silenziosa amarezza di suo padre, la fiacca pena dei suoi fratelli e, cosa peggiore di tutte, il suo profondo desiderio di continuare ad andare a scuola. Gli piaceva studiare, gli piacevano gli elogi del suo giovane maestro, ma i suoi genitori non potevano accollarsi quell' impegno. Era stato così per tutti i figli, non ci sarebbe stata nessuna eccezione per lui, nonostante avesse dimostrato capacità migliori degli altri. Ingoiava il pianto perché non era una femmina lagnosa. Era un maschio con l'orgoglio dei maschi, con la loro forza. Era pronto a dimostrarlo, portando via di là, i suoi pochi stracci, i suoi sogni e la sua fame. Il padrone non tardò, arrivò con la bicicletta , lo sollevò da terra e lo caricò sulla canna. Gli amici lo salutarono dopo averlo raggiunto in branco, come bestioline selvatiche che popolavano quel paesaggio irto. Sua madre resse all’emozione disperata e stringendo fra le braccia la più piccola dei suoi figli, salutò il bambino con il solo sguardo vuoto. Quindi tornò verso casa, senza nessun rimorso. Da quell'istante lo sconosciuto sulla bicicletta diventò il padrone. Iniziò a pedalare lentamente, portando con se quella creatura rabbiosa ed affamata. Puzzava di sudore e tabacco, come il padre a sera. Come il padre non parlava, respirava pacatamente e quello era anche il suo unico modo di comunicare. La familiarità con quel silenzio doveva bastargli per scongiurare il timore di quel viaggio. Vide il mare e sentì dentro il cuore una vibrazione più forte anche della fame, era la voce della libertà che non avrebbe più smesso di udire da quel momento. Intanto comparve la masseria oltre un vasto podere di piante di fico e ulivi dalla corteccia tutta contorta. Un gregge di pecore bivaccava lì attorno, in attesa del nuovo pastorello, seduto sulla canna della bicicletta, ormai giunta a destinazione oltre un cortile dove vennero incontro quattro ragazzetti con la faccia pulita: due maschi e due femmine, impazienti di salutare il padre e di conoscere il nuovo sguattero cui, solo il più giovane di essi esibì una smorfia incerta che voleva essere un sorriso. Gli altri lo squadrarono attentamente poi, dietro ordine del padre lo accompagnarono nel suo nuovo alloggio perché potesse sistemarsi prima di prendere servizio. Gli avevano messo a disposizione un vecchio materasso, un catino e un pitale nell'ala dell'abitazione più vicina all'ovile, il cui cattivo odore gli si sarebbe appiccicato contro, diventando il primo motivo di disgusto da parte dei figli grassi del padrone, sempre ad eccezione del più giovane, che spesso gli lasciava usare l'acqua saponata dopo essersi lavato lui, così che potesse provare un pò di sollievo dal lezzo fastidioso di caprone. Altri gesti gentili nei suoi confronti non ce n'erano. Tutto quello che gli spettava era frutto del suo lavoro al pascolo con il gregge o tra i campi sotto il sole battente, in casa nei piccoli mestieri che le figlie del massaro disdicevano, costringendo lui a ripetuti dispetti sprezzanti, a differenza del padre che invece sfruttava le sue fatiche per sfamarlo. Sapeva quell'uomo quanto i suoi figli fossero superbi, ma questo faceva parte del gioco nella gerarchia dissacrante del destino umano. Forse, più semplicemente, in quell'esile creatura affamata riconosceva se stesso, molti anni prima e rispettava il suo sforzo alla sopportazione, senza cedere mai alla realtà dei suoi pochi anni. Spesso osservava i suoi occhi malinconici ma fieri. Occhi che non temevano di sostenere lo sguardo altrui perché non dovevano nascondere nulla. Erano pieni di verità. Misera verità della vita, della solitudine ma anche dell'intelligenza, dell'amor proprio. Quello sguardo infantile era già vecchio, era già forte come quello di ogni padrone di se stesso. Ogni tanto luccicava di un pianto che non si sarebbe consumato, altre volte luccicava solo perché era lo sguardo sensibile e orgoglioso di un bambino di otto anni.

Non ebbe più notizie dei suoi. Solo una volta suo padre, in occasione della festa del Patrono, venne a prenderlo a sorpresa, nel tardo pomeriggio, per portarlo alla sagra con sè. Era arrivato in bicicletta anche lui. Odorava di tabacco ed aveva le mani grandi come il padrone. Come il padrone lo sollevò sulla canna e partì.
Rivide il mare, il suo cuore fremette ancora, disse: -"Un giorno io andrò lontano..."- . Il padre continuava a pedalare.
"Bravo"- disse - "Bravo"... Dopo quasi un'ora s'intravidero le prime luci della festa. Archi di lampadine rosse e bianche illuminavano a giorno tutte le vie, gremite di uomini con la camicia bianca, donne vestite di nero che trascinavano i figli più piccoli per un braccio e tenevano sotto il proprio le figlie adolescenti, sante maliziose, nelle fantasie di ragazzotti impacciati che si chiamavano, quasi tutti come il Santo Patrono e tentavano di far breccia nei loro cuori.
Tutte le porte delle abitazioni erano spalancate, dentro i lumini accesi davanti alle fotografie dei defunti e qualche vecchietta in preghiera. Spettrale, quanto gli stessi ritratti illuminati, su cui versava il suo rito di dolore. Il bambino spiava quel mondo casalingo come a scovare qualcosa di proprio. Non aveva più pensato a casa sua, ma a nonna Rosa si. Poi, si era imbattuto in quegli usci a lutto e tutto sembrava rinvenire nei suoi pensieri.
-"Guarda! Guarda!"- Lo spronò il padre con gli occhi illuminati -"E' una cosa mai vista!"- La sera, sembrava inghiottita dal bagliore di archi infiniti di luminarie scintillanti: "Sai che faccio adesso?Ti compro un panino! Lo vuoi?"
Il bambino non credeva alle sue orecchie: un panino tutto per se,un panino vero! Fece di sì col capo, smontò dalla bicicletta e si diresse dal venditore di panini. Ce n'erano col salame o con la mortadella distesa ad onda dentro gli sfilatini. Indicò uno di questi. "No!"-intervenne il padre -"Non ti lasciare incantare dalle apparenze: la mortadella inganna, ha la fetta lunga e la possono arrangiare come se ce ne fosse tanta. Prendi quello al salame, mangi di più!"-
Addentò il suo panino al salame dimenticando quel luogo di folla e luci abituato solo a frise e fichi secchi o solo frise gonfiate nell'acqua, per confonderne la misera quantità che, regolarmente, gli toccava. Si sentiva in estasi, forse era quella la sensazione di essere graziati dal Santo. Da lì a poco, sgomitando, verso la piazza, venne annichilito da una melodia potente che accapponava la pelle. La banda, disposta sopra un palco nel cuore della piazza, suonava la Turandot di Puccini. Il bambino sentiva pulsargli le tempie e battere forte forte il cuore, come se avesse fatto una corsa lunghissima, come se gli ottoni scintillanti lo inghiottissero per poi lanciarlo lontano, oltre la luna, oltre quella notte magica. Suo padre era dietro di lui, reggeva la bicicletta, anch'egli emozionato, inghiottito.
Poi, un applauso interminabile, un consenso perpetuo a quell'impeto sinfonico che travolgeva con una forza superiore e meravigliosa. "Andiamo"- esclamò il padre, ma il bambino non riusciva a muoversi di là e quando il trombettista si alzò in piedi,dando fiato alla Norma, il suo cuore fremette di nuovo e lo paralizzò ad ascoltare, immobile come la statua del Santo . "Andiamo!" insistette il padre, allora il bambino si mosse e riprese a mangiare il panino. La gente sgomitava e urlava, comprese le donne vestite di nero da capo a piedi, come mosche giganti. Nell'aria afosa odori forti di sudore, pistacchi tostati e pesce fritto che si cucinava ad ogni angolo.
C'era un uomo grasso con un camice bianco che girava tra la gente, raschiando uno spesso blocco di ghiaccio con una spatola, per ottenere piccoli grumi di neve da irrorare di sciroppo alla menta e al limone che distribuiva convulsamente ai molti che lo circondavano con pochi spiccioli in mano. Tutto era un moto di confusione e luce, poi un boato improvviso fece levare quel mare di occhi al cielo. La notte s'infuocava di giochi pirotecnici che sembravano cadere verso il basso, carpiti da esclamazioni di stupore e applausi quasi isterici. Il bambino si girò per cercare lo sguardo paterno, improvvisamente si sentì a disagio, ma il padre non c'era più.

Gli mancarono le gambe, urlò. Attorno a se solo facce deliranti, bocche spalancate, remote come caverne, alcune sdentate, altre con il dente in oro, come l'aureola del Patrono, che gli sorrideva da sopra il palco dove lo avevano esibito ai fedeli frastornati, più che graziati. Si dimenava rabbioso nella calca che lo travolgeva mentre la festa finiva. Il Santo si congedava dal popolo adorante.
La grande piazza si svuotava velocemente, il bambino continuava a chiamare il padre, a cercarlo da ogni parte. Il cuore gli scoppiava nel petto e le gambe gli tremavano ancora. Ormai la miriade di lampadine scintillanti si spegneva, finendo come una magia. Piccole processioni di gente si dirigevano verso la campagna per tutte le direzioni e il bambino si mise al seguito, nella speranza di orientarsi. Sembrava un agnellino del suo gregge: quello che spesso prendeva in braccio posando il suo volto sulla lana riccia che solleticava ed emanava un calore intimo e rassicurante. Camminava a testa bassa, senza mai alzare lo sguardo dal sentiero. I rumori della campagna erano minacciosi. Lui aveva paura di morire, come mai prima di quella notte. Era stanco, marciava da molto tempo e, finalmente, udì il fiato del mare in lontananza. Stava andando nella direzione giusta, aumentò il passo per fare presto. Desiderava raggiungere la masseria, il suo materasso accanto all'ovile, addormentarsi, dimenticare tutto. Non si chiese più che fine avesse fatto suo padre, ripensò al panino che gli aveva comprato, al suo sorriso ruvido ma buono. Si erano persi e non poteva cercarlo per riportarlo indietro. Doveva andare a casa dagli altri figli, da sua madre. Sembrava essere stato inghiottito dalla notte, ma non era più importante. La masseria era una sfumatura bianca nel pallore argentino della luna. Riconobbe la strada,le sagome degli alberi, l'odore di quel posto come il profumo buono di sua madre, quelle poche volte che se lo era stretto al petto. Fece piano per non svegliare nessuno, ma il suo padrone lo aspettava vigile e più tardi scese a vederlo, gli buttò all'indietro un ciuffo di capelli, dormiva, sospirò.. Il giorno dopo,secondo l'usanza per la festa
del Patrono si mangiava il pollo arrosto. Dalla cucina si liberava un intenso aroma di carne marinata, di capperi e pomodoro. Al pastorello che radunava le bestie all'ovile tornò in mente quella volta che sua madre cucinò il coniglio, non aveva mai scordato il sapore, il suo odore divino. I figli del padrone non persero tempo a dirgli quanto pollo avrebbero mangiato a pranzo, sperando di ferirlo, stupidamente come sempre: "Puzzi di caprone" continuavano a ripetergli schifati, ma lui rimaneva composto nella sua inconsapevole dignità. E quando quel giorno il padrone gli ordinò di intrattenersi a mangiare il pollo, alla sua tavola, il bambino provò un forte disagio ma anche una sorta di riscatto morale che però era troppo giovane per definire.

Servirono il pollo su di un enorme piatto rotondo. Il suo profumo riempiva l'aria, propagandosi oltre gli ulivi ed i mandorli, sarebbe giunto fino al mare. Anch'esso avrebbe sentito il profumo di pollo, i suoi pesci, le sue conchiglie. I figli del padrone tendevano con impazienza il loro piatto al padre che per accentuare la loro festa, disse: "Servitevi da soli!" Fu un assalto: chi strappava il petto, chi il cosciotto. Il pastorello guardava ammutolito in una smorfia di sorriso. Sapeva che la sua presenza lì era sgradita e sarebbe fuggito volentieri con la sua pancia vuota e la puzza di caprone, ma il suo padrone si sarebbe offeso. "Tu non ne vuoi?"- Chiese in italiano la primogenita grassa, con gli occhi molto piccoli e neri, vestita tutta di bianco, come la Vergine, ma velenosa come una serpe. Il più piccolo dei fratelli prese il piatto dell'ospite e lo passò alla sorella maggiore che, con evidente espressione di disgusto, lo riempì di due misere ali bruciacchiate. Calò uno strano silenzio.
Il bambino si sentiva osservato, aveva caldo, nascose il viso tra le mani e per la prima volta pianse.
Dentro di lui si era finalmente rotto qualche cosa. Erano lo sdegno e l'umiliazione: un urlo che rimbombava nella sua anima come la sera precedente, quando suo padre era sparito e lui era rimasto solo nel bolo delle luci colorate, di tutte quelle bocche spalancate al cielo infuocato. Il suo orgoglio era ferito. Stava orientandosi di nuovo, nella notte buia. Solo e spaventato, in quella miserabile esistenza. Decise che quel giorno se ne sarebbe andato dalla masseria, per sempre. Non avrebbe più permesso a nessuno di trattarlo come un cane randagio a cui lanciare qualche avanzo di vita. Quando levò le mani dal viso rigato di pianto nero, mostrò una creatura nuova, fulgida nello sguardo orgoglioso. Si alzò dalla sedia e scusandosi col padrone, lasciò la sua cucina. L'uomo lo chiamò indietro,ma conosceva quella fuga di animale selvatico e smise.
Il vento caldo sembrava portare in trionfo il bambino che correva fino al mare. Il suo colore si confondeva con quello del cielo, con quello meraviglioso di un paio d'ali per volare dovunque le sue forze e la sua dignità lo avessero portato.



3 commenti:

  1. Un bambino, così come l'uomo adulto che in lui e da lui potrà essere. Realismo, sogno e incubo. Paura e audacia, servilismo e orgoglio. Ansia liberatrice e affrancamento da qualunque giogo. E infine una libertà di vivere e immaginare. Vivere nel mondo dei liberi, oppure volare in alto. Forse con la fantasia, forse fondendosi con l'immensità del mare, che sullo sfondo attende. Un breve preziosissimo racconto che ha i sapori i colori, gli andirivieni della poesia, e che - per questo - fa vibrare e scuotere i meandri dell'anima, le più intime corde nel cuore di chi legge. Una sorpresa, questa, di cui Sonia fa generosamente dono a tutti noi.

    Antonino Caponnetto

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  2. Meraviglioso il senso di rivalsa che suscita la fine racconto! La dignità mostrata dal bambino al momento di lasciare la tavola del padrone, è davvero commovente.

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  3. Un racconto molto ben costruito, teso ad armonizzare sensibilità, delicatezza di situazioni, amarezza di fondo, nutrito di leggerezza descrittiva che l'apparenta alla poesia e ne fa un esempio di scrittura non piagnona o che indulge al sentimentalismo incontrollato ma robusta e lieve allo stesso tempo. Un racconto da leggere e assaporare.

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