Oggi sono stato svegliato
da un raggio di luce tenacemente passato da una finestra appena
socchiusa. Altre volte ero rimasto infastidito ma, stamattina, mi ha
preso per mano per condurmi al nuovo giorno. La mia stanza da letto è
molto ampia, i mobili sono tra il moderno e l’antico, alcuni
piccoli soprammobili donano all’ambiente un’atmosfera decisamente
allegra. Non appena mi sveglio, non posso fare a meno di infilarmi
una vestaglia e dirigermi verso il balcone per guardare il cielo. Se
potessi, uscirei completamente nudo! Il mio spazio è lì. Quel cielo
può essere di qualsiasi colore, ma i miei occhi non possono aprirsi
se non li sollevo prima verso l’alto per gustarlo. Se c’è
pioggia, mi piacerebbe tanto bagnarmi, inzupparmi in quella
innegabile festa del cielo e seguire le nuvole per guardare anche
oltre. Se c’è neve ancor più trovo pace per quella candida parte
di cielo che viene giù leggera. Con questa idea, anche nel cono
d’ombra più assoluto della notte, il mio pensiero può indagare
senza perdersi. Prima, però, non era così.
Un giorno, in un momento
di sconforto, mi chiesi come fosse possibile non trovare una via
d’uscita, cercare di smettere di essere un attore bendato, di
essere un automa senza scelta, un uomo che potesse ritrovare la
giusta via dopo la perdita dell’orientamento.
Alcuni bambini, giocando
nel cortile, facevano un fracasso infernale e a nulla valse sbarrare
porte e finestre. Mi sembrava d’impazzire, ero tentato di emettere
un grido liberatorio, o ancor peggio, di scendere giù per le scale
ed affrontare il problema con violenza. Ma, per fortuna, bloccai
quell’impulso insensato. Pensai, mi allontanai mentalmente da quel
baccano, tentai di modificarne la ricezione, immaginai addirittura di
ascoltare una dolce melodia di Chopin. Mi avvicinai alla finestra,
l’aprii e guardai il cielo, poi quei ragazzini. Mi sembrò
impossibile, ma ciò che poco prima m’infastidiva, adesso quasi
cominciava a piacermi. Poco prima avevo desiderato il buio e il
silenzio credendo di poter sopportare meglio il dolore. Mi accorsi
che mi sbagliavo: “se fosse stato buio, non sarebbero stati assenti
solo quei ragazzini, ma anche tutto ciò che c’era intorno. Per
tale assenza, poi, come avrei potuto giustificare anche la mia
esistenza?”
Oggi la mia non è una
stanza e neppure un ufficio. I mobili, le suppellettili, la chitarra,
il pianoforte, i dischi, i libri, il computer, non sono tenuti
insieme da quattro mura; non c’è una finestra e neppure una porta.
Con loro vivo fuori, all’aperto sotto un unico cielo. Anche quando
giunge la sera e poi la notte, quel manto nero punteggiato di piccole
gemme, ugualmente mi dona la gioia di essere libero.
Il
mio spazio non c’è dove lo cerco e neppure dove lo trovo se la mia
vista è tagliata da un muro. Non c’è posto in cui potrei sentirmi
presenza attiva se non oltre ogni perimetro. Non sopporterei che il
mio pensiero fosse inesorabilmente chiuso, ingabbiato. Il mio spazio
giunge in punta di piedi come figlio del silenzio anche nel groviglio
di moltitudini voci. Trovo il mio silenzio nell’insieme ed è un
silenzio affascinante, amabile, dolce. Nel suo mistero non c’è
l’inutile vuoto, ma infinite essenze. In questa realtà universale
posso espandermi, illimitatamente identificarmi, posso essere io
stesso uno spazio infinito… che gioca con quei ragazzini.
Mi e' piaciuto molto FPD, la tua prosa e' ricca e delicata insieme, nella scorrevolezza invita comunque a pause di riflessione. Un autobiografico interessante, merce rara... Grazie.
RispondiEliminaC.Z.
Un bello spaccato dell'ambiente domestico e interiore dell'autore. Complimenti.
RispondiEliminaE' un racconto senza una storia, eppure riesce a interessare e coinvolgere
RispondiEliminaInfatti, non ha la pretesa di poter essere classificato come letteratura narrativa.
EliminaIl potere dell'autosuggestione, grande potere!
RispondiEliminaMa quella sofferenza la trovo una stonatura. Una tale fantasia dovrebbe averla bandita da un pezzo. Mi piaciucchia.