Don Pablo
Sono tra coloro che hanno avuto la
fortuna di conoscere Don Pablo.
Accadde pochi giorni prima dell'inizio
di una tiepida primavera australe, anni orsono. Settembre si
dispiegava sul cielo come carta
da zucchero e le nuvole vi transitavano con meditata lentezza,
tanto da sembrare monaci in processione. Don Pablo era pensoso, la
sua camminata esplorava adagio
la sabbia tra una roccia di granito grigio e l'altra. Le onde blu
cobalto esplodevano in schizzi, depositando sulla spiaggia ciottoli e
cocci di quelle che dovevano essere state abitazioni di molluschi.
Fu lui a rivolgermi la parola, come se
avesse avuto bisogno di comunicare a qualcuno un'inquietudine
impossibile da reprimere o elaborare interiormente.
- Si annuncia una primavera dolce come
in pochi altri casi è successo, non trova?
- Sì, certo... - risposi sorpreso,
rimanendo in attesa che proseguisse.
- La stagione ideale per oziare lungo
la spiaggia, sedere sulla cima di uno scoglio come quello - indicò
con l'indice destro una roccia che interrompeva la continuità del
bagnasciuga - e godersi gli spruzzi guardando il mare. Questo è il
posto più bello del mondo, per certi aspetti. Lo lasci dire a me,
che di angoli di globo ne ho veduti.
Pronunciando l'ultima frase aveva
sollevato il viso volgendosi a oriente, in direzione dell'oceano,
come a volerli abbracciare tutti con uno sguardo,
quei lontani luoghi.
Non dissi nulla, percependo che il
discorso di Don Pablo stava proseguendo nelle profondità dell'animo
e avrebbe presto preso la forma di frasi articolate dall'intensità
della sua voce.
Senza accorgercene ci incamminammo
fianco a fianco, lentamente, in silenzio. Cercando di non farmi
notare, lo osservai: indossava pantaloni scuri, con la piega, che un
tempo dovevano essere stati eleganti; la maglia di lana sottile era
d'altri tempi e altre origini: immaginai potesse averla acquistata in
qualche sperduto mercato, chissà dove. Le scarpe nere avevano perso
la presumibile originale lucentezza, probabilmente smerigliate dalla
sabbia nel corso delle passeggiate mattutine sulla spiaggia. Teneva
le maniche leggermente rimboccate, arricciate sugli avambracci, e i
polsi villosi ne uscivano, così come l'orologio d'oro. La posizione
del cappello, leggermente obliqua, lasciava intuire il cranio calvo.
Procedeva con le braccia dietro la schiena, la
mano sinistra che teneva la destra, lo sguardo cogitabondo rivolto
alla sabbia e alle alghe tubolari, somiglianti a pneumatici da
bicicletta sfilacciati, sputate dalle onde.
-
L'Italia, per esempio. La sua Italia, - riprese improvvisamente
guardandomi - Napoli, Roma, Venezia... Ah, Venezia... In
quella città davvero si compie il balzo verso un'altra dimensione.
Se si è predisposti, beninteso. Se ci si vuole predisporre, dovrei
dire. Venezia è un autentico miracolo.
Fece una pausa, poi continuò: - Ma a
Venezia il mare non è mare, è piatta acqua salmastra; gli isolotti
sono canneti paludosi. Venezia è un miracolo dell'uomo, mentre
questo - fece un gesto ampio con il braccio – questo è un miracolo
di Dio. Un miracolo di Dio; so che le sembrerà strano detto da me,
marxista convinto, ma voglio proprio dirlo così, non sono in grado
di trovare espressioni migliori.
Tacque di nuovo e rimase silenzioso per
un po'. Quando riprese a parlare, da qualche istante il sole stava
proiettando un fascio di luce intensa sulle onde, facendosi largo tra
alcuni nuvoloni che minacciavano di addensarsi.
- La primavera sarà tiepida, l'estate
calda, ma non troppo. Ne avremo vino eccellente, - disse Don Pablo –
proprio come quello di una certa annata che non ricordo esattamente,
saranno stati due, tre anni prima della mia morte, se la memoria non
m'inganna.
Si interruppe e contemporaneamente
smise di camminare, si girò verso ponente e dovette ammiccare
ripetutamente per le folate di brezza. Guardò la grande casa che si
affacciava sulla spiaggia dall'altura e sembrava sorvegliare i nostri
movimenti.
- Quella non è solo una casa, non è
semplicemente un tetto sorretto da pareti. E' un veliero, è il
teatro dell'opera, è un museo vivente. Quella casa è un'intera
orchestra. In quella casa ho viaggiato, ho amato, ho preso per mano
la vita!
Aveva parlato con enfasi. Riportò
quindi la voce ad un tono più pacato, quasi intimo.
- Ne possedevo altre due, di case.
Vivevano di vita propria esattamente come questa di cui le sto
parlando. Pensi che a tutte avevo addirittura dato un nome, ognuno
con un proprio specifico significato. Questa la battezzai con il nome
di un'isola immaginaria, poi anche il luogo assunse la stessa
denominazione. Dicono che io abbia dato nome e voce a queste rocce, a
questa spiaggia, ma preferisco pensare che sia successo il contrario
e io abbia semplicemente potuto interpretare il desiderio degli
elementi, scoprendo il loro
nome. Inoltre, queste creature, queste creature che i più
definiscono “inanimate”, le onde, gli scogli, il vento, hanno
voce propria e lei può ascoltarla, chiunque può ascoltarla, purchè
lo desideri.
Don Pablo tacque e parve immergersi in
lontani ricordi.
- Mi trovavo in una delle mie dimore,
malato, - riprese - quando seppi della morte del presidente, il mio
amico presidente. Immaginai che un clima cupo si sarebbe presto steso
su tutto il paese. Non mi sbagliai. Qualcuno sostiene che gli stessi
farabutti abbiano organizzato la mia morte, cioè che io, in altre
parole, sia stato assassinato, avvelenato. In tutta sincerità non lo
so, nè m'importa di saperlo. So però che al mio funerale vennero
operai e contadini; singolare per uno che in vita si occupava
soprattutto di poesia, non crede?
Si era alzato il vento e già da
qualche minuto il suo sibilo andava rapidamente trasformandosi in una
serie di lunghi fischi modulati. Gli uccelli marini sfidavano la
corrente in attesa di prede su cui lanciarsi in picchiata, quasi
immobili, sospesi nell'aria, appena dondolanti.
Quando mi voltai verso Don Pablo mi
accorsi di essere rimasto solo. Mi guardai attorno, lo cercai,
stupito e quasi impaurito per l'inattesa improvvisa solitudine. Di
lui rimaneva un busto scolpito nel granito, a pochi passi da dove mi
trovavo. Un pellicano planò e repentinamente vi si appollaiò sul
capo, quasi a volersi appostare a guardia della statua. Intimorito,
semplicemente mi allontanai ripensando alle parole di Don
Pablo, pronunciate dalla sua voce che ancora sentivo vibrare. Ripresi
a camminare lungo la spiaggia. Le mie scarpe affondavano leggermente
nella sabbia inzuppata, laddove le onde giungevano solo di quando in
quando. Lasciavo impronte che sparivano subito: la sabbia, gonfia
d'acqua, riprendeva immediatamente il proprio stato precedente.
Proprio
come il mondo, pensai. Proprio come il mondo.
A
Neftalí
Ricardo Reyes Basoalto,
in
arte Pablo Neruda,
reo
confesso d'aver vissuto.
Un racconto forbito,curato,come nello stile dell'autore che si esprime attraverso la descrizione dei particolari,quasi a voler rendere concreta la possibilità del lettore,di sentirsi parte del contesto.Colpisce molto la narrazione poetica che precisa il gusto di un linguaggio personale,spontaneo che fa la differenza.La lettura scorre piacevolmente,lasciando il gusto delle cose belle,quando non sono troppo costruite,ma nascono dall'intima capacità della comunicazione.
RispondiEliminaUna dedica profondamente sentita, questa di Paolo Zanardi a Pablo Neruda, e che col cuore sento molto vicina a me. Aggiungerei che racconti di questo tipo sono per me "racconti dell'anima", termine che ho già usato e condiviso. Tuttavia un racconto (come una poesia) non si scrive solo col sentimento ma ha bisogno di una 'téchne' affinata nel tempo, sperimentata e indagata per ogni aspetto da parte dell'Autore, di un'attitudine al pensiero razionale, che nulla toglie, anzi arricchisce di significati quelle sorgenti emozionali e del sentimento che hanno, anch'esse, spinto, guidato a volte, e sempre contribuito alla realizzazione di un'opera. E di un'opera, come questa di Paolo Zanardi, a cui vanno i più che meritati complimenti.
RispondiEliminaAntonino
Una dedica, come dice Nino. Racconto di fantasmi, si potrebbe anche dire. Ma più che altro un racconto d'amore, di un amore letterario così forte che dà voce e resurrezione a un poeta che non c'è più, così come aveva fatto in articulo mortis Troisi.
RispondiEliminaLa scrittura, lieve, piacevole, scrupolosa e al tempo stesso svelta, trae a sé il lettore incuriosendo e commovendo. Nei panni di Paolo avrei cercato di andare ancora un poco oltre, di approfondire un po'. Avrei approfittato di questa epifania per concedere al poeta da me amato un supplemento di vita. Un po' di "bocca asciutta" a me in effetti come lettore è rimasta. Chissà che questo racconto non possa essere ancora un poco sviluppato e ampliato. E' un consiglio che, accanto ad un convinto apprezzamento, lascio a Paolo Zanardi
Vedo in questo breve racconto un respiro ampio che va oltre l'omaggio a un amatissimo poeta. Colgo l'accento sulle presenze al funerale di gente del popolo, l'accento sulla morte di Allende e sul buio che ne e' seguito. Anche e soprattutto queste cose facevano di Neruda un grande poeta e un grande uomo, e Paolo le ha sottolineate: saper stigmatizzare l'ingiustizia attraverso la poesia, riuscire a rendere poetici i contesti popolari, cosi' come le cose semplici della quotidianita'. Mi emoziona e commuove un fantasma con vesti e scarpe consumate dall'usura sulla spiaggia, mi riporta al mare tanto cantato e declamato. E l'anima di fanciullo di questo fantasma che non sa e non gli importa di sapere come sia morto e neanche di essere morto. Le impronte sulla sabbia si cancellano in fretta, certe memorie e certi scritti no, quelli rimangono, cosi' come rimangono le riflessioni e le emozioni che scaturiscono in generazioni di lettori. Sono anch'io per suggerire uno sviluppo di questo racconto, un importante sviluppo perche' lo spunto e' eccezionale e la capacita' di svolgerlo c'e' in pieno.
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RispondiEliminaUn dialogo realissimo. C'è un legame intimo, vissuto. Un affetto, una affettuosa ammirazione. Non è un ricordo, è momento vissuto, sospeso, senza tempo.
RispondiEliminaUn regalo, da chi ha conosciuto e amato Neruda, a chi lo ha altrettanto conosciuto e amato.
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