Ali
di pollo
Dallo
sterrato bianco si levavano leggere spirali di polvere.
Dalle
folte chiome degli ulivi proveniva, insistente e monotono, il frinire
delle cicale oziose e, in lontananza, la sagoma della piccola chiesa
rassicurava della presenza di Dio tutta la campagna arsa dal calore
che si estendeva da ogni parte silenziosa e inodore.
Il
bambino scalzo avanzava con una coda di lucertola in mano, castigando
la fame, nella cattura dispettosa di quel piccolo trofeo
che
stringeva nel pugno: unico avere della giornata. Stava aspettando che
qualche amico lo raggiungesse prima dell'imminente partenza. Non
mancava molto a che quell'uomo, conosciuto qualche giorno prima,
venisse a prenderlo per portarlo a lavorare nella sua masseria vicino
al mare, allontanandolo dalle scorribande con gli altri figli della
miseria. Aveva avuto il coraggio di scegliere da solo di andare, a
otto anni, quando la fame esclude i vantaggi anche dell'età così
giovane. Dissacrandone la tenerezza, profanandone l'innocenza.
Quell'uomo sarebbe arrivato presto, lo avrebbe prelevato nonostante
le lacrime di sua madre, la silenziosa amarezza di suo padre, la
fiacca pena dei suoi fratelli e, cosa peggiore di tutte, il suo
profondo desiderio di continuare ad andare a scuola. Gli piaceva
studiare, gli piacevano gli elogi del suo giovane maestro, ma i suoi
genitori non potevano accollarsi quell' impegno. Era stato così per
tutti i figli, non ci sarebbe stata nessuna eccezione per lui,
nonostante avesse dimostrato capacità migliori degli altri. Ingoiava
il pianto perché non era una femmina lagnosa. Era un maschio con
l'orgoglio dei maschi, con la loro forza. Era pronto a dimostrarlo,
portando via di là, i suoi pochi stracci, i suoi sogni e la sua
fame. Il padrone non tardò, arrivò con la bicicletta , lo sollevò
da terra e lo caricò sulla canna. Gli amici lo salutarono dopo
averlo raggiunto in branco, come bestioline selvatiche che popolavano
quel paesaggio irto. Sua madre resse all’emozione disperata e
stringendo fra le braccia la più piccola dei suoi figli, salutò il
bambino con il solo sguardo vuoto. Quindi tornò verso casa, senza
nessun rimorso. Da quell'istante lo sconosciuto sulla bicicletta
diventò il padrone. Iniziò a pedalare lentamente, portando con se
quella creatura rabbiosa ed affamata. Puzzava di sudore e tabacco,
come il padre a sera. Come il padre non parlava, respirava
pacatamente e quello era anche il suo unico modo di comunicare. La
familiarità con quel silenzio doveva bastargli per scongiurare il
timore di quel viaggio. Vide il mare e sentì dentro il cuore una
vibrazione più forte anche della fame, era la voce della libertà
che non avrebbe più smesso di udire da quel momento. Intanto
comparve la masseria oltre un vasto podere di piante di fico e ulivi
dalla corteccia tutta contorta. Un gregge di pecore bivaccava lì
attorno, in attesa del nuovo pastorello, seduto sulla canna della
bicicletta, ormai giunta a destinazione oltre un cortile dove vennero
incontro quattro ragazzetti con la faccia pulita: due maschi e due
femmine, impazienti di salutare il padre e di conoscere il nuovo
sguattero cui, solo il più giovane di essi esibì una smorfia
incerta che voleva essere un sorriso. Gli altri lo squadrarono
attentamente poi, dietro ordine del padre lo accompagnarono nel suo
nuovo alloggio perché potesse sistemarsi prima di prendere servizio.
Gli avevano messo a disposizione un vecchio materasso, un catino e un
pitale nell'ala dell'abitazione più vicina all'ovile, il cui cattivo
odore gli si sarebbe appiccicato contro, diventando il primo motivo
di disgusto da parte dei figli grassi del padrone, sempre ad
eccezione del più giovane, che spesso gli lasciava usare l'acqua
saponata dopo essersi lavato lui, così che potesse provare un pò di
sollievo dal lezzo fastidioso di caprone. Altri gesti gentili nei
suoi confronti non ce n'erano. Tutto quello che gli spettava era
frutto del suo lavoro al pascolo con il gregge o tra i campi sotto il
sole battente, in casa nei piccoli mestieri che le figlie del massaro
disdicevano, costringendo lui a ripetuti dispetti sprezzanti, a
differenza del padre che invece sfruttava le sue fatiche per
sfamarlo. Sapeva quell'uomo quanto i suoi figli fossero superbi, ma
questo faceva parte del gioco nella gerarchia dissacrante del destino
umano. Forse, più semplicemente, in quell'esile creatura affamata
riconosceva se stesso, molti anni prima e rispettava il suo sforzo
alla sopportazione, senza cedere mai alla realtà dei suoi pochi
anni. Spesso osservava i suoi occhi malinconici ma fieri. Occhi che
non temevano di sostenere lo sguardo altrui perché non dovevano
nascondere nulla. Erano pieni di verità. Misera verità della vita,
della solitudine ma anche dell'intelligenza, dell'amor proprio.
Quello sguardo infantile era già vecchio, era già forte come quello
di ogni padrone di se stesso. Ogni tanto luccicava di un pianto che
non si sarebbe consumato, altre volte luccicava solo perché era lo
sguardo sensibile e orgoglioso di un bambino di otto anni.
Non
ebbe più notizie dei suoi. Solo una volta suo padre, in occasione
della festa del Patrono, venne a prenderlo a sorpresa, nel tardo
pomeriggio, per portarlo alla sagra con sè. Era arrivato in
bicicletta anche lui. Odorava di tabacco ed aveva le mani grandi come
il padrone. Come il padrone lo sollevò sulla canna e partì.
Rivide
il mare, il suo cuore fremette ancora, disse: -"Un giorno io
andrò lontano..."- . Il padre continuava a pedalare.
"Bravo"-
disse - "Bravo"... Dopo quasi un'ora s'intravidero le
prime luci della festa. Archi di lampadine rosse e bianche
illuminavano a giorno tutte le vie, gremite di uomini con la camicia
bianca, donne vestite di nero che trascinavano i figli più piccoli
per un braccio e tenevano sotto il proprio le figlie adolescenti,
sante maliziose, nelle fantasie di ragazzotti impacciati che si
chiamavano, quasi tutti come il Santo Patrono e tentavano di far
breccia nei loro cuori.
Tutte
le porte delle abitazioni erano spalancate, dentro i lumini accesi
davanti alle fotografie dei defunti e qualche vecchietta in
preghiera. Spettrale, quanto gli stessi ritratti illuminati, su cui
versava il suo rito di dolore. Il bambino spiava quel mondo casalingo
come a scovare qualcosa di proprio. Non aveva più pensato a casa
sua, ma a nonna Rosa si. Poi, si era imbattuto in quegli usci a
lutto e tutto sembrava rinvenire nei suoi pensieri.
-"Guarda!
Guarda!"- Lo spronò il padre con gli occhi illuminati -"E'
una cosa mai vista!"- La sera, sembrava inghiottita dal bagliore
di archi infiniti di luminarie scintillanti: "Sai che faccio
adesso?Ti compro un panino! Lo vuoi?"
Il
bambino non credeva alle sue orecchie: un panino tutto per se,un
panino vero! Fece di sì col capo, smontò dalla bicicletta e si
diresse dal venditore di panini. Ce n'erano col salame o con la
mortadella distesa ad onda dentro gli sfilatini. Indicò uno di
questi. "No!"-intervenne il padre -"Non ti lasciare
incantare dalle apparenze: la mortadella inganna, ha la fetta lunga e
la possono arrangiare come se ce ne fosse tanta. Prendi quello al
salame, mangi di più!"-
Addentò
il suo panino al salame dimenticando quel luogo di folla e luci
abituato solo a frise e fichi secchi o solo frise gonfiate
nell'acqua, per confonderne la misera quantità che, regolarmente,
gli toccava. Si sentiva in estasi, forse era quella la sensazione di
essere graziati dal Santo. Da lì a poco, sgomitando, verso la
piazza, venne annichilito da una melodia potente che accapponava la
pelle. La banda, disposta sopra un palco nel cuore della piazza,
suonava la Turandot di Puccini. Il bambino sentiva pulsargli le
tempie e battere forte forte il cuore, come se avesse fatto una corsa
lunghissima, come se gli ottoni scintillanti lo inghiottissero per
poi lanciarlo lontano, oltre la luna, oltre quella notte magica.
Suo padre era dietro di lui, reggeva la bicicletta, anch'egli
emozionato, inghiottito.
Poi,
un applauso interminabile, un consenso perpetuo a quell'impeto
sinfonico che travolgeva con una forza superiore e meravigliosa.
"Andiamo"- esclamò il padre, ma il bambino non riusciva a
muoversi di là e quando il trombettista si alzò in piedi,dando
fiato alla Norma, il suo cuore fremette di nuovo e lo paralizzò ad
ascoltare, immobile come la statua del Santo . "Andiamo!"
insistette il padre, allora il bambino si mosse e riprese a mangiare
il panino. La gente sgomitava e urlava, comprese le donne vestite di
nero da capo a piedi, come mosche giganti. Nell'aria afosa odori
forti di sudore, pistacchi tostati e pesce fritto che si cucinava ad
ogni angolo.
C'era
un uomo grasso con un camice bianco che girava tra la gente,
raschiando uno spesso blocco di ghiaccio con una spatola, per
ottenere piccoli grumi di neve da irrorare di sciroppo alla menta e
al limone che distribuiva convulsamente ai molti che lo circondavano
con pochi spiccioli in mano. Tutto era un moto di confusione e luce,
poi un boato improvviso fece levare quel mare di occhi al cielo.
La notte s'infuocava di giochi pirotecnici che sembravano cadere
verso il basso, carpiti da esclamazioni di stupore e applausi quasi
isterici. Il bambino si girò per cercare lo sguardo paterno,
improvvisamente si sentì a disagio, ma il padre non c'era più.
Gli
mancarono le gambe, urlò. Attorno a se solo facce deliranti, bocche
spalancate, remote come caverne, alcune sdentate, altre con il dente
in oro, come l'aureola del Patrono, che gli sorrideva da sopra il
palco dove lo avevano esibito ai fedeli frastornati, più che
graziati. Si dimenava rabbioso nella calca che lo travolgeva
mentre la festa finiva. Il Santo si congedava dal popolo adorante.
La
grande piazza si svuotava velocemente, il bambino continuava a
chiamare il padre, a cercarlo da ogni parte. Il cuore gli scoppiava
nel petto e le gambe gli tremavano ancora. Ormai la miriade di
lampadine scintillanti si spegneva, finendo come una magia. Piccole
processioni di gente si dirigevano verso la campagna per tutte le
direzioni e il bambino si mise al seguito, nella speranza di
orientarsi. Sembrava un agnellino del suo gregge: quello che spesso
prendeva in braccio posando il suo volto sulla lana riccia che
solleticava ed emanava un calore intimo e rassicurante. Camminava a
testa bassa, senza mai alzare lo sguardo dal sentiero. I rumori della
campagna erano minacciosi. Lui aveva paura di morire, come mai prima
di quella notte. Era stanco, marciava da molto tempo e, finalmente,
udì il fiato del mare in lontananza. Stava andando nella direzione
giusta, aumentò il passo per fare presto. Desiderava raggiungere
la masseria, il suo materasso accanto all'ovile, addormentarsi,
dimenticare tutto. Non si chiese più che fine avesse fatto suo
padre, ripensò al panino che gli aveva comprato, al suo sorriso
ruvido ma buono. Si erano persi e non poteva cercarlo per riportarlo
indietro. Doveva andare a casa dagli altri figli, da sua madre.
Sembrava essere stato inghiottito dalla notte, ma non era più
importante. La masseria era una sfumatura bianca nel pallore
argentino della luna. Riconobbe la strada,le sagome degli alberi,
l'odore di quel posto come il profumo buono di sua madre, quelle
poche volte che se lo era stretto al petto. Fece piano per non
svegliare nessuno, ma il suo padrone lo aspettava vigile e più tardi
scese a vederlo, gli buttò all'indietro un ciuffo di capelli,
dormiva, sospirò.. Il giorno dopo,secondo l'usanza per la festa
del
Patrono si mangiava il pollo arrosto. Dalla cucina si liberava un
intenso aroma di carne marinata, di capperi e pomodoro. Al
pastorello che radunava le bestie all'ovile tornò in mente quella
volta che sua madre cucinò il coniglio, non aveva mai scordato il
sapore, il suo odore divino. I figli del padrone non persero tempo a
dirgli quanto pollo avrebbero mangiato a pranzo, sperando di
ferirlo, stupidamente come sempre: "Puzzi di caprone"
continuavano a ripetergli schifati, ma lui rimaneva composto nella
sua inconsapevole dignità. E quando quel giorno il padrone gli
ordinò di intrattenersi a mangiare il pollo, alla sua tavola, il
bambino provò un forte disagio ma anche una sorta di riscatto morale
che però era troppo giovane per definire.
Servirono
il pollo su di un enorme piatto rotondo. Il suo profumo riempiva
l'aria, propagandosi oltre gli ulivi ed i mandorli, sarebbe giunto
fino al mare. Anch'esso avrebbe sentito il profumo di pollo, i suoi
pesci, le sue conchiglie. I figli del padrone tendevano con
impazienza il loro piatto al padre che per accentuare la loro festa,
disse: "Servitevi da soli!" Fu un assalto: chi strappava
il petto, chi il cosciotto. Il pastorello guardava ammutolito in una
smorfia di sorriso. Sapeva che la sua presenza lì era sgradita e
sarebbe fuggito volentieri con la sua pancia vuota e la puzza di
caprone, ma il suo padrone si sarebbe offeso. "Tu non ne vuoi?"-
Chiese in italiano la primogenita grassa, con gli occhi molto
piccoli e neri, vestita tutta di bianco, come la Vergine, ma velenosa
come una serpe. Il più piccolo dei fratelli prese il piatto
dell'ospite e lo passò alla sorella maggiore che, con evidente
espressione di disgusto, lo riempì di due misere ali bruciacchiate.
Calò uno strano silenzio.
Il
bambino si sentiva osservato, aveva caldo, nascose il viso tra le
mani e per la prima volta pianse.
Dentro
di lui si era finalmente rotto qualche cosa. Erano lo sdegno e
l'umiliazione: un urlo che rimbombava nella sua anima come la sera
precedente, quando suo padre era sparito e lui era rimasto solo nel
bolo delle luci colorate, di tutte quelle bocche spalancate al cielo
infuocato. Il suo orgoglio era ferito. Stava orientandosi di nuovo,
nella notte buia. Solo e spaventato, in quella miserabile esistenza.
Decise che quel giorno se ne sarebbe andato dalla masseria, per
sempre. Non avrebbe più permesso a nessuno di trattarlo come un cane
randagio a cui lanciare qualche avanzo di vita. Quando levò le mani
dal viso rigato di pianto nero, mostrò una creatura nuova, fulgida
nello sguardo orgoglioso. Si alzò dalla sedia e scusandosi col
padrone, lasciò la sua cucina. L'uomo lo chiamò indietro,ma
conosceva quella fuga di animale selvatico e smise.
Il
vento caldo sembrava portare in trionfo il bambino che correva fino
al mare. Il suo colore si confondeva con quello del cielo, con quello
meraviglioso di un paio d'ali per volare dovunque le sue forze e la
sua dignità lo avessero portato.
Un bambino, così come l'uomo adulto che in lui e da lui potrà essere. Realismo, sogno e incubo. Paura e audacia, servilismo e orgoglio. Ansia liberatrice e affrancamento da qualunque giogo. E infine una libertà di vivere e immaginare. Vivere nel mondo dei liberi, oppure volare in alto. Forse con la fantasia, forse fondendosi con l'immensità del mare, che sullo sfondo attende. Un breve preziosissimo racconto che ha i sapori i colori, gli andirivieni della poesia, e che - per questo - fa vibrare e scuotere i meandri dell'anima, le più intime corde nel cuore di chi legge. Una sorpresa, questa, di cui Sonia fa generosamente dono a tutti noi.
RispondiEliminaAntonino Caponnetto
Meraviglioso il senso di rivalsa che suscita la fine racconto! La dignità mostrata dal bambino al momento di lasciare la tavola del padrone, è davvero commovente.
RispondiEliminaUn racconto molto ben costruito, teso ad armonizzare sensibilità, delicatezza di situazioni, amarezza di fondo, nutrito di leggerezza descrittiva che l'apparenta alla poesia e ne fa un esempio di scrittura non piagnona o che indulge al sentimentalismo incontrollato ma robusta e lieve allo stesso tempo. Un racconto da leggere e assaporare.
RispondiElimina